venerdì 30 novembre 2012
sabato 24 novembre 2012
PSICOLOGIA DELLO SPORT: Approfondimento
Il
blocco mentale e la paura di vincere
Nel
contesto sportivo la paura si esprime generalmente attraverso l’ansia. L’ansia
di non mostrare le proprie capacità,
l’ansia di farsi male, l’ansia del non deludere l’Altro significativo (ossia la
figura di riferimento), l’ansia di non raggiungere l’obiettivo previsto. È
quindi intesa prevalentemente come paura
di perdere, ma esiste un altro fenomeno legato all’ansia dell’atleta, più
complesso, che prende il nome di Nikefobia,
terminologia greca composta da "nike" vittoria e "phobia"
ovvero paura.
Se la paura
di perdere è socialmente accettata e comprensibile, la paura di vincere resta indecifrabile a causa della sua
irrazionalità. Come
è possibile che esista la paura di vincere?
Per lo sportivo, amatore quanto più per l’agonista, questa fobia segnala la presenza di conflitti psicologici di molteplice natura. In primis potrebbe rappresentare il timore dell’atleta di infrangere alcune gerarchie consolidate che, fino a quel momento, lo hanno deresponsabilizzato e tenuto nell’ombra. Eccellere rispetto ad un compagno notoriamente più formato in termini di esperienza potrebbe portare l’atleta ad attribuirsi un ruolo per il quale, inconsapevolmente, non si sente pronto. Ecco che l’anonimato di posizioni intermedie diventa psicologicamente un obiettivo funzionale al suo scopo.
Per lo sportivo, amatore quanto più per l’agonista, questa fobia segnala la presenza di conflitti psicologici di molteplice natura. In primis potrebbe rappresentare il timore dell’atleta di infrangere alcune gerarchie consolidate che, fino a quel momento, lo hanno deresponsabilizzato e tenuto nell’ombra. Eccellere rispetto ad un compagno notoriamente più formato in termini di esperienza potrebbe portare l’atleta ad attribuirsi un ruolo per il quale, inconsapevolmente, non si sente pronto. Ecco che l’anonimato di posizioni intermedie diventa psicologicamente un obiettivo funzionale al suo scopo.
Grande
importanza ha anche il livello di autostima sperimentato dal soggetto stesso
che rinvia la sua grande performance, nonostante i tecnici e l’allenatore lo
ritengano pronto, per non assumersi poi la responsabilità del proprio talento.
Ciò comporta l’analisi di un’altra prospettiva che riguarda l’impegno nel dover
mantenere uno standard di prestazione, ove ci sia un apice raggiunto, che sia adeguato
e soddisfacente agli occhi di figure significative quali l’allenatore, la
famiglia, il pubblico e la critica, oltre che nei confronti di se stesso
ovviamente.
Nel calcio, la Nikefobia può rappresentare uno squilibrio tra la
volontà di raggiungere l’obiettivo finale e la reale capacità di far emergere
le qualità dei singoli giocatori, che si traduce in una prestazione non
all’altezza delle esigenze. Il giocatore si è allenato duramente, ma si trova
di fronte a questo inspiegabile meccanismo mentale che non gli fa superare il
suo limite e lo priva delle energie per raggiungere il traguardo. Questo
fenomeno è da valutarsi soprattutto quando la competizione è con avversari
dello stesso livello di preparazione tecnica, e l’atleta, che sa di poter
compiere l’azione che risolverebbe a proprio favore l’intero match, si blocca
ripetutamente ad ogni occasione di svolta, innescando una serie di insuccessi
che lo fanno dubitare di se stesso e delle proprie capacità. Con il ripetersi
di questo copione il giocatore rischia di intaccare inesorabilmente la propria autostima
e l’unico modo per spezzare questa catena di errori sta nell’affrontarli nel
loro significato più profondo.
Come può, tuttavia, un fenomeno
individuale, condizionare la sorte di una squadra intera?
Quando una
squadra di calcio accumula una serie di sconfitte consecutive, nella concezione
comune si considera la spirale di insuccessi raccolti come effetto di una “paura
di vincere” collettiva. Ciò appare riduttivo in quanto nel campo da gioco non
c’è solo un giocatore contro il suo avversario a determinare l’esito della
gara, ma sono da considerare anche molti altri fattori che incidono
sull’atteggiamento mentale di tutta la squadra. Infatti, le pressioni esterne
quali ad esempio le critiche, più o meno costruttive, dei mezzi di
informazione, il giudizio dello staff tecnico e societario e le aspettative
della tifoseria incidono sullo stato mentale collettivo che condiziona la
prestazione agonistica.
I molteplici
fattori esterni uniti alla presenza della paura di vincere in uno o più
giocatori, se non riconosciuti ed affrontati, possono innescare negatività
ripetute, intese come risultati fallimentari, che influiscono sull'autostima del
gruppo determinando uno status collettivo di demoralizzazione che si protrae
nel tempo (spirale della sconfitta).
Nikefobia e
blocco mentale della squadra sono quindi due concetti diversi ma che spesso
viaggiano parallelamente nel segnalare la difficoltà di esprimere al meglio una
prestazione sportiva.
dott.ssa Ivana Siena
Fonte: www.forzapescara.tv
lunedì 12 novembre 2012
SPAZIO LETTURA
ANTROPOLOGIA DELL’AMORE
Eros e culture, Dino Burtini
Il mistero dell'attrazione appare insondabile, ma chi di voi non ha provato almeno una volta nella vita l’incanto dell’amore, l’innamoramento, la passione? Si tratta di un’esperienza così universalmente diffusa che sfugge a qualunque definizione: ”Amore, impossibile a definirsi!” direbbe Giacomo Casanova. Il testo affronta uno dei nodi essenziali della riflessione e dell’esperienza esistenziale dell’umanità, esso esplora il sentimento amoroso nei diversi contesti culturali analizzati personalmente dall’autore attraverso la ricerca sul campo e l’esame delle fonti.
L’amore è una chiave perfetta per cogliere i dati fondamentali di una cultura, perché esso interessa la sfera più profonda della personalità umana. Il lavoro è una descrizione attenta e intrigante dei comportamenti umani relativi alla vasta sfera dei modi di agire, individuali e sociali, legati all’amore (le feste della pubertà, i rituali dell’unione, il corteggiamento, l’adulterio, la sessualità, l’eros), sentimento che coinvolge sempre e inevitabilmente l’intera complessità dell’individuo, dal piano biologico a quello psichico, a quello intellettuale, a quello etico. Aspetti che vengono analizzati in chiave comparativa mettendo a confronto la realtà occidentale ed europea in particolare con quella dei popoli di interesse etno-antropologico. L’autore si muove alla ricerca delle modalità con cui l’amore si manifesta e soprattutto si ritualizza, nella mentalità (cioè nei valori) e nei comportamenti di altre culture, ricorda come amore e sessualità contengano emozioni e significati psicologici e antropologici che sono il prodotto, a volte conflittuale, di pulsioni naturali frammiste ad esperienze sociali, morali e religiose. L’amore e l’eros diventano veicolo di relazione e scambi comunicativi tra gli uomini.
Dino Burtini è psicologo e
antropologo, insegna Sociologia dei processi culturali e Antropologia
interculturale presso l’Università di Chieti-Pescara. Formatore e
teatroterapeuta, dirige un Istituto di Alta Formazione e una Scuola di
Specializzazione in Psicoterapia. Nel corso del suo lavoro di ricerca, ha
incontrato l’eccezionale magistero di Cecilia Gatto Trocchi (alla quale il
testo è dedicato) che gli ha trasmesso la passione, oltre che gli strumenti
metodologici, degli studi antropologici che lei stessa aveva saputo apprendere
alla scuola di Claude Lévi-Strauss. Durante la sua esperienza di studioso e
nell’ambito dei suoi interessi psico-antropologici, ha svolto indagini sul
campo in Europa, Africa, India, Centro e Sud America, poi raccolte in diverse e
fortunate pubblicazioni. Per i tipi della Bulzoni ha già pubblicato ”In
principio Dio creò i Masai”.
I diritti d'autore saranno devoluti al recupero del patrimonio
storico e culturale della città dell'Aquila.
sabato 10 novembre 2012
lunedì 5 novembre 2012
C'E' CRISI
Il concetto
di crisi fa riferimento ad un punto decisivo di cambiamento. In campo
psicologico si intende un momento di sofferenza, di destabilizzazione rispetto
all’equilibrio precedentemente acquisito, che rappresenta un punto di svolta
decisivo e può evolversi in un miglioramento o in un peggioramento.
Paul
Claude Racamier (1985, p. 16) a questo proposito scrive “La nozione di crisi si pone tra il registro della normalità e della
patologia: attraversa nello stesso tempo il normale ed il patologico ed il suo
interesse sta nel fatto che si pone a cavallo tra questi due registri”.
L’accezione
positiva del termine vede la crisi come un momento cruciale del percorso
evolutivo dell’essere umano o di un sistema, che a partire da un “pericolo” può
mettere in campo le proprie risorse verso una nuova opportunità di cambiamento.
La crisi
si materializza laddove un certo pensiero, capacità di gestire le proprie
emozioni e modalità relazionale, diventano insufficienti a soddisfare le
aspettative fino a quel momento funzionali al benessere della vita quotidiana.
Ci sia avvia verso una trasformazione, vissuta come estranea però, pericolosa perché
protratta verso l’ignoto, in direzione di un modello di vita mai sperimentato,
ma inconsapevolmente ricercato.
Tale cambiamento fa paura pertanto la reazione
più consona e prevedibile, spesso è rappresentata da un maggiore attaccamento ai
vecchi modelli comportamentali che forniscono un’apparente sicurezza, ma che contemporaneamente
confermano la sofferenza e la necessità di un rinnovamento.
La manifestazione
di questo malessere non riconosciuto si esplica in molte tipologie di
comportamento, dalle continue liti familiari ed extrafamiliari, disadattamento
in campo lavorativo, uso e abuso di sostanze, crisi coniugali, senza contare
gli stati d’animo associati a questi momenti che rischiano una cronicizzazione se
non governati adeguatamente.
In questa
visione, in cui la crisi è considerata come un ostacolo alla crescita dell’individuo,
il riconoscimento ed il potenziamento delle proprie risorse personali e la
volontà di “sporcarsi le mani” mettendosi in gioco, rappresentano la condizione
maggiormente auspicabile per il superamento dei propri limiti e per l’utilizzo
di questi momenti di empasse come uno strumento funzionale al proprio Sé.
Questa
spiegazione della crisi tenta di abbattere lo stereotipo della Psicologia come
un intervento per estirpare i tratti patologici di un individuo o di un
sistema. Infatti se l’obiettivo generale è far emergere le risorse interiori,
sempre presenti ma spesso poco visibili, diventa chiaro che gli eventi critici
non sono espressione di patologia, ma creazione di nuove forme di
funzionamento. Il benessere auspicato è inteso quindi come capacità “reattiva”,
rispetto a fattori che hanno in sé il potenziale di indurre malessere. Pertanto un percorso psicologico non ha
l’obiettivo diretto ed irrazionale di porre in essere soluzioni immutabili e
certe, ma di scortare l’individuo nella direzione consona al ritrovamento del
suo benessere.
La
definizione di paziente, ove non ci siano problematiche psichiatriche riconosciute,
può essere quindi sostituito dal termine
ricercatore, collaboratore, mentre lo psicologo può essere investito della
funzione di accompagnatore di questo percorso di ricerca del reale significato
del malessere.
dott.ssa Ivana Siena
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