mercoledì 30 gennaio 2013

LA SINDROME DI REBECCA


Gelosia retroattiva


L’amore è quel sentimento che spinge uomini e donne a speciali reazioni fisiche ed emotive spesso non programmate o che oltrepassano la soglia della razionalità. È caratterizzato da una vasta gamma di sfaccettature tra le quali affiora la gelosia. Quando si ama qualcuno, molto spesso si ha il timore di perderlo e, messa in questi termini, la gelosia rientra in un livello di normalità fisiologica caratterizzata da comportamenti di allerta nei confronti degli atteggiamenti, apparentemente o realmente, anomali del partner. Così una semplice ed inaspettata telefonata, un’uscita fuori programma o un casuale ritardo nel rientrare a casa genera quel pizzico di curiosità, a volte anche invadente, da parte del partner geloso il quale da il via alla ricerca anche dei più piccoli ed insignificanti indizi su cui fondare ipotesi che saranno destinate a stimolare la sua angoscia e la sua inquietudine.
Nel momento in cui tale sentimento è però dettato dalla paura che qualcun altro possa privarci dell’oggetto del nostro amore, la gelosia può correre il rischio di trasformarsi in una sorta di malattia diventando quindi patologica. Un aspetto che può incrementare il livello di gelosia è, ad esempio, l’intensità del rapporto che il partner ha vissuto con l’ ex soprattutto nei casi di condivisione di momenti importanti come un figlio, una convivenza o se il ricordo della precedente storia è ricco di stima ed affetto reciproco.
Una chiara espressione di gelosia patologica, riferibile a questo tipo di esempi, è la cosiddetta sindrome di “Rebecca” che prende il suo nome da un film di  Alfred Hitchcock, ispirato dal celebre romanzo di Daphne du Maurier “ Rebecca la prima moglie”. Libro e film raccontano la storia di una donna che sposa un vedovo e va a vivere nella casa in cui il ricco uomo aveva vissuto con la prima moglie. La donna si rende conto che il marito,  ossessionato dal ricordo della defunta Rebecca di cui è ancora innamorato e che considera perfetta, allude a  continui confronti  tra lei e la ex compagna.
Tale sindrome indica oggi la gelosia che si prova per il passato sentimentale dell’altro, una particolare forma retroattiva nei confronti della persona amata, alle volte immotivata e ingiustificata che può diventare una vera e propria ossessione.                                                                                    
Le persone affette da tale sindrome sono accecate dalla gelosia non rendendosi conto che spesso il “pericolo ex” in realtà non esiste, che la minaccia dipende effettivamente da loro poiché includono questa presenza all’interno del rapporto di coppia. Questo genere di gelosia dipende da svariati fattori quali ad esempio: la scarsa autostima, che porta alla continua svalutazione delle proprie capacità e caratteristiche positive in favore di una idealizzazione dell’ex compagno\a   del proprio partner, l’ansia, che rende difficile controllare o gestire gli attacchi di gelosia; ed infine la presenza di pregresse storie d’amore problematiche o complesse che hanno lasciato delle ferite aperte e hanno reso vulnerabili alla paura del riproporsi dell’ insuccesso amoroso. La “gelosia dell’ex” nei casi più gravi può diventare un disturbo psichiatrico, con episodi di gelosia patologica e comportamenti paranoici e deliranti. Ciò è dovuto ad un disturbo di tipo ossessivo-compulsivo, che aggredisce la mente della persona gelosa di giorno come durante il riposo notturno, fino a farle avere delle difficoltà nel distinguere nettamente tra passato e presente. La Sindrome di Rebecca agisce infatti, anche quando i riferimenti pericolosi vengono ridotti al minimo o sono semplicemente casuali: il pensiero ossessivo trascura i dati di realtà e si fonda su una carente lettura della mente dell’altro, al quale viene attribuita l’intenzione di ricordare il partner precedente in virtù di un legame affettivo che non si è mai sciolto.
Quando si verificano queste interazioni l’emozione prevalente è una rabbia profonda che gradualmente pregiudica la qualità della relazione, il dialogo fra i partner, la costruzione di un rapporto che sia in grado di collocarsi nel tempo presente integrando le diverse fasi di vita degli individui coinvolti.                                                                                                                  A volte però i sensori di colui o colei che sospetta non si attivano per pura paranoia o insicurezza ma le ansie sono giustificate da particolari comportamenti messi in atto dal partner come quello di non parlare mai del/della ex innescando nell’altro una curiosità eccessiva e ossessiva che ha lo scopo di riempire i vuoti del passato, oppure quando ne parla molto male ma in realtà pensa esattamente il contrario, o ancora quando i due sono grandi amici poiché non si riesce a chiudere un rapporto o per paura o perché ci si sente gratificati. Il quadro peggiora se il partner, non comprendendo o sottovalutando la gravità del fenomeno, parla liberamente delle esperienze vissute in passato senza curarsi di ciò che potrebbe scatenare: il rimuginare dell’altro, il quale non tollera che vengano menzionati luoghi ed eventi che appartengono ai legami già vissuti e in generale viene travolto da un pensiero ricorrente in merito alla figura di chi l’ha preceduto, alle sue doti più brillanti, agli elementi che potrebbero aver reso speciale e ineguagliabile quel rapporto.             
Intervento terapeutico: la gelosia retroattiva si può vincere ma il lavoro deve essere suddiviso tra i due partner. Lui o lei dovrebbero imporsi di NON pensare continuamente alla vecchia storia, tantomeno di paragonarla alla nuova. Il partner interessato necessita di modificare l’atteggiamento, cercare di essere più sensibile, dovrebbe essere aiutato mettendo in evidenza il suo comportamento e il fastidio che provoca. Allo stesso tempo il nuovo arrivato non deve sentirsi in competizione con il passato, che spesso è morto e sepolto.
Una vecchia storia non deve essere sepolta e dimenticata. In fin dei conti fa parte di noi e quando si costruisce un nuovo rapporto è importante parlare del passato per conoscersi meglio e per imparare dagli errori commessi. Non bisogna però prenderla come parametro di riferimento e giudicare ogni nuova esperienza con quella passata.                                                        
Il problema va affrontato e non sottovalutato: è consigliata una psicoterapia individuale per abbattere insicurezze e aumentare l'autostima, ma l’ideale è una psicoterapia di coppia per lavorare sulla fiducia, sul legame che si sta formando e sul patto (implicito ed esplicito) che li ha uniti inizialmente, con l’obiettivo di uscirne più forti di prima.
  Dott.ssa Ivana Siena

martedì 29 gennaio 2013

GIOCO D'AZZARDO PATOLOGICO: IV PARTE


La famiglia del gambler



La famiglia esiste in tutti i popoli ed è esistita in tutte le epoche; vuol dire che rappresenta tutto sommato un bene comune probabilmente con una base biologica in tutti gli esseri umani, quindi se si è evoluta nella struttura con cui noi la conosciamo, al di là poi delle differenze culturali, ha sicuramente una funzione nella capacità della nostra specie di riprodursi e di andare avanti nella storia. Voi sapete che i meccanismi familiari hanno due possibilità: la prima possibilità è quella di far saltare la famiglia, ci sono dei sistemi disastrosi all’interno delle famiglie che poi la fanno saltare…il gioco può servire da leva per far saltare una famiglia; viceversa ci sono però degli strumenti, dei meccanismi, all’interno della famiglia che permettono di rinsaldare la famiglia stessa e anzi di utilizzare le forze all’interno di questa famiglia per permettere che funzioni meglio di quello che non sia funzionata prima. Quindi noi riteniamo che la famiglia possa essere utilizzata come risorsa a favore del giocatore e della sua cura.
I  giocatori che arrivano al momento di farsi curare, sono già in una situazione avanzata. Difficilmente si arriva in cura all’inizio della carriera di giocatore.
Di solito si tratta di  persone già in difficoltà importanti, delle persone sposate, almeno la metà ha già perso il partner perché è una situazione che si prolunga da anni e la situazione familiare è già saltata. L’altra metà ha ancora un partner, però gran parte di questi si deve considerare in grosse difficoltà, uno dei due partner sta pensando sicuramente da qualche tempo di lasciare il partner giocatore. È da considerare però il fatto che nella famiglia non esiste soltanto il partner ma esistono anche i genitori, esistono anche i figli.
Alcune teorie sostengono che il giocatore d’azzardo che poi diventerà patologico è una persona che in una qualche parte nutre dei sentimenti di insicurezza dentro di sé, non sa mai bene a chi appartiene, chi è, si sente incerto della propria funzione sociale. Non è questa soltanto la ragione del fatto per cui uno può a un certo momento scegliere il gioco d’azzardo per poter trovare una strada per trasformare sé stesso, però è sicuramente uno degli elementi che entrano in linea di conto.
I giocatori d’azzardo patologici, sono pieni di risorse, sono delle persone anche generose, quando hanno qualcosa da condividere con gli altri lo fanno anche volentieri. Il momento acuto della crisi è un momento diciamo di passaggio, che permette loro di cambiare, però sostanzialmente spesso sono delle persone con un carattere di questa natura.
Il coniuge
Nel ciclo di cui si parlava prima, una volta arrivati alla fase della perdita della speranza comincia ad insorgere una barriera tra giocatore e coniuge. Comincia una barriera perché è facile parlare dei successi e delle cose buone che si sono fatte, è molto più difficile parlare delle prime perdite, delle cose che non vanno, di quello che viene a mancare, qui si copre quindi qualche cosa di cui il coniuge non è a conoscenza, proprio perché il ragionamento del giocatore d’azzardo è quello di dire "io sto zitto per intanto su questa faccenda perché tanto sono qui vicino a capire che cosa succederà e quindi non ho bisogno di dirlo adesso, casomai lo dirò dopo quando avrò coperto quello che manca".
Tutto questo va avanti per un certo periodo, il problema è che il coniuge un giorno o l’altro avrà la rivelazione di quello che sta davvero succedendo e quindi gli crolla a volte il mondo addosso, scopre che quelle che erano delle capacità che immaginava il coniuge avesse, in realtà non erano delle capacità. Ci sono delle telefonate per esempio di creditori, ci sono dei buchi dei conti correnti con tutte le piccole trucchi che ci sono e non sto qui a raccontarvi, delle ricevute falsificate con fotocopie, ci sono mille sistemi per nascondere le cose, debiti e protesti, dove ci sono dei debiti che non sono stati pagati, arriva addirittura l’intervento della polizia.
È facile pensare come in questo momento,  la famiglia cominci ad avere la crisi, un momento di crollo, cioè una certezza da parte di uno dei partner crolla, ma spesso non crolla la certezza del giocatore, il quale di solito cerca di calmare il coniuge che non gioca. Tuttavia deve entrare in una certa accettazione di regole. Il coniuge che non gioca, di regola la moglie, avrà due possibilità di atteggiamento, il primo atteggiamento è quello di dire "io ti proteggo, io ti salverò". E’ una dei sistemi che esistono di proteggere una persona: quello di cedere, per esempio pagando dei debiti, dandogli comunque fiducia nel senso di accettare che continui a gestire la contabilità, dandogli delle responsabilità nel senso "se io do fiducia potrà imparare, ri-imparare a gestire le sue cose in un modo adeguato". Il secondo metodo è quello del rifiuto: "tu adesso fai esclusivamente quello che dico io. Naturalmente se un giocatore non è ancora in chiaro sulla natura del suo disturbo succederanno anche qui delle difficoltà nel senso che il giocatore comunque giocherà, comunque metterà in difficoltà il riorganizzo economico della famiglia. Nei due casi si tratta di una strategia che viene dal fatto che gli esseri umani compiono degli errori quando vogliono essere cattivi, però fanno anche degli errori quando vogliono essere buoni. Ci sono dei vari metodi per essere buoni, non c’è soltanto un metodo, si può benissimo essere accondiscendenti, essere buoni, essere gentili verso gli altri, voler aiutare, eppure con questo fare dei danni. Infatti quando il coniuge paga un debito oppure lascia perdere una situazione difficoltosa e se ne incarica,  che cosa impara il coniuge giocatore? Impara che il gioco rende, in un qualche modo rende, perché o è il gioco che ti paga la sua parte oppure sono gli altri che in fondo da una qualche parte credono che le cose possano andare avanti ancora così.
Si va avanti con una situazione estremamente complessa che mina la tranquillità della famiglia, ci sono continue ricadute, ci sono continue messe in discussione tra i coniugi, ci sono delle menzogne e c’è pian piano quello che viene chiamato il  crollo della fiducia. È proprio per questa ragione, sarebbe questo il momento opportuno per intervenire, al momento in cui queste cose incominciano a formarsi anche se nella realtà non succede mai.
E’ il crollo della fiducia quindi, il coniuge non giocatore accusa il giocatore che oramai da tempo pensa soltanto al gioco, di essere anaffettivo, di non avere più nessun sentimento né per i figli né per la moglie e di non assumersi le sue responsabilità. Il giocatore se potesse parlare liberamente saprebbe che in un certo senso è vero. Tuttavia da una qualche parte, fino a quando non tocca il fondo, ha ancora la convinzione che quello che sta facendo lo sta facendo anche per il bene della propria famiglia perché più studia, più si occupa del gioco e più si avvicinerà a quelle leggi, a quelle regole che determinano il caso e quindi gli permettono di conoscerlo, quindi è un altro modo di vedere la cosiddetta rincorsa, io sto perdendo oggi, domani invece guadagnerò perché avrò capito quello che sta succedendo alla macchina oppure alla macchina della roulette.

I figli

I figli sono evidentemente in una situazione estremamente complicata. Questi hanno, secondo inchieste americane, dei problemi grossi anche di tipo psicologico, un maggiore rischio di suicidio, maggiori possibilità di abuso di alcool, un calo di risultati scolastici, maggiori possibilità di diventare giocatori patologici e a volte sono psicologicamente abbandonati. Questo perché spesso la moglie si occupa in un modo estremamente attivo del marito giocatore e quindi i figli hanno la sensazione, che i genitori si occupino tra di loro ma trascurino loro. I figli molto spesso, quando uno dei genitori sta male cercano di essere tranquilli, di non essere una ulteriore preoccupazione in famiglia, di non essere d’intralcio al genitore che si occupa dell’altro genitore, sembra quasi che abbiano bisogno di meno presenza, di meno affetto, di meno sicurezza al loro fianco. In realtà soffrono dei conflitti dei genitori, hanno un profondo senso di insicurezza, anche perché, dipende dall’età, ma spesso i ragazzi più giovani hanno la sensazione che se i genitori sono in conflitto ci sono dei problemi, forse c’entrano anche loro e soffrono evidentemente poi al momento in cui si dovesse propendere per una separazione.
Tutto questo è un processo, è una situazione che va avanti grado a grado, tuttavia non è irreversibile, nel senso che anche il giocatore più patologico, che ha avuto dei guai anche molto grandi, può benissimo fermarsi, è  lui che decide il giorno in cui riflettere sul proprio presente, sul proprio passato e si pone delle domande sul proprio futuro. Quando non ne può più. Molto spesso questi momenti di cambiamento sono accompagnati anche da cambiamenti nel partner il quale di regola pone l’aut aut terminale. Riesce e esprimere una minaccia che intuitivamente il partner capisce che è vera. Uno dei rischi, in tutte queste situazioni conflittuali, è quello di esprimere delle minacce, io ti lascio, io non ne voglio più sapere, che però il partner sa che non sono vere, non vengono messe in atto e quindi rafforza in fondo il partner nella propria sicurezza che qualunque cosa faccia, qualunque cosa succeda, non capiterà niente a lui. Questa volta invece spesso è la situazione risentita come autentica, come vera, è lì scatta, quando c’è evidentemente, scattano i vecchi meccanismi di affezione reciproca tra due persone che recuperano anche la situazione tra i due.

La terapia

Il programma terapeutico a cui si possono sottoporre i giocatori d'azzardo patologici prevede un intervento multidisciplinare sul paziente, con lo scopo di sanare tutti gli aspetti della vita del soggetto, coinvolti negativamente dal gioco. Inizialmente è consigliabile avviare la terapia con una serie di colloqui che hanno lo scopo di costruire una motivazione al cambiamento, di gestire la resistenza e di rafforzarne l'impegno. Segue poi la fase psicoterapeutica che prevede terapie individuali, di coppia, di famiglia e di gruppo. Per quanto riguarda il trattamento, il recupero, senza dubbio faticoso, lungo e complesso, e' certamente possibile. Fondamentale è il supporto dei familiari: solo un giocatore su 20, infatti, chiede aiuto in prima persona e il problema dell’azzardo coinvolge emotivamente ed economicamente anche la famiglia. Se, infatti, è difficile prevedere chi, da giocatore saltuario, diverrà dipendente si può certamente riconoscere un denominatore comune: la sofferenza personale che spesso affonda le sue radici in situazioni familiari difficili cui il soggetto tenta in qualche modo di evadere. Inoltre, per quanto egli riesca a nascondere il problema, la sua scarsa presenza in famiglia porta effettivamente alla perdita del ruolo che è assunto da altri familiari (ad esempio, frequente è il caso di figli adolescenti che interrompono gli studi e iniziano a lavorare, cercando inconsciamente di sostituirsi al genitore giocatore).
Gli approcci che appaiono più utili prevedono terapie individuali ma anche familiari e di gruppo, promuovono gruppi di auto-aiuto, offrono un sostegno anche da un punto di vista legale. La psicoterapia di gruppo può rappresentare un valido strumento nell’affrontare le varie forme di patologia sociale. Nel caso del gioco d’azzardo patologico il giocatore scopre, partecipando al gruppo, di non essere il solo ad avere problemi, poiché riconosce le sofferenze e le difficoltà di tutta la sua famiglia e degli altri componenti del gruppo. Inoltre, il semplice confronto con ex-giocatori fa scattare un comportamento imitativo positivo, passo fondamentale per intraprendere il lungo viaggio verso la guarigione.
Nella pratica clinica si incontrano persone, famiglie di giocatori in questi momenti in cui la crisi è all’apice del suo avvenimento. È raro riuscire ad intervenire prima che il giocatore stesso non ne senta il bisogno e se ciò succede è soltanto per l’intervento della famiglia.  In cui questo modo si sostiene in quel momento il partner più debole, quello che non gioca, per poi passare anche un po’ la palla al momento in cui il giocatore va in crisi, perché in quel momento ha bisogno anche lui di essere sostenuto. Dare quindi alcuni strumenti ai familiari di cui potranno poi servirsi, in una lotta,  fatta per il bene, fatta così perché permetta poi il recupero di una persona, e anche il recupero dell’intero gruppo familiare.
Un  metodo utilizzato in alcuni centri di recupero prevede una infantilizzazione del giocatore, cioè il giocatore deve essere privato, d’accordo lui evidentemente, altrimenti non si può fare, della sua disponibilità di denaro, che vuol dire denaro liquido evidentemente, vuol dire le firme sui conti correnti, vogliono dire le carte di credito e così via. In un certo modo si cerca di responsabilizzare i familiari affinché lo facciano loro.
Un altro intervento utile, in particolare nei gruppi, è stimolare il confronto tra i coniugi. Il coniuge in fondo si sente in colpa, in fondo sente vergogna, sente anche una gran rabbia di essere stato ingannato per tanti anni in questo modo, e di essere messo poi in situazioni difficili dal punto di vista economico, psicologico, sociale. Questo viene fatto in gruppo perché chi ci si scambia delle opinioni ci si aiuta anche reciprocamente, uno si rende conto che in fondo la situazione umana è poi uguale per tutti.
La condivisione di esperienze simili ed il  parlarne diminuisce la densità delle cose e permette di imparare da come hanno fatto gli altri per imparare.
Altra cosa importante da fare è la psicoeducazione. Si tratta in realtà di una sensibilizzazione a che cosa è il gioco, anche al giocatore, non soltanto al coniuge. Si dovrebbe cercare di metterli assieme e di fare loro scuola, in poche ore, su che cosa è il gioco, su che cosa sono i problemi, non è una ma semplicemente una richiesta di informazioni sul come fare per affrontare un periodo difficile.
Molte mogli ritengono che una volta che il marito è curato non deve più ricadere. È chiaro invece che la ricaduta fa parte proprio del gioco come malattia. Ci sono dei comportamenti che a volte si ripresentano, mai così gravi come all’inizio e ciò che conta è che, se si ripresentano non creino delle difficoltà enormi e questa volta non più giustificate. In certi casi di colpo può risvegliarsi tutta l’amarezza di molti anni e per una cosa da poco. Perché sono recuperabili le ricadute se si ha una rinnovata rottura che spesso è anche una rottura che diventa definitiva.

La musicoterapia


Nel trattamento psicoterapico per giocatori d'azzardo patologici rientra come terapia complementare anche la musicoterapia. L'inserimento del suono e della musica in questo percorso di guarigione permette ai giocatori di socializzare in modo sano, di elevare il tono dell'umore, di spostare l'attenzione su altro e soprattutto di distogliersi dalla fissazione del gioco. L'obiettivo dell'intervento musicoterapico, infatti, è proprio quello di togliere i pazienti dalla trance, di aiutarli a gestire la fissazione e il forte impulso che li induce a giocare e di controllare l'irrequietezza e l'irritabilità che si manifestano nel momento in cui smettono di giocare. Il percorso completo con la musicoterapia consta di dodici sedute articolate in tre diverse sezioni: un primo lavoro individuale con il giocatore, quindi una serie di sedute di gruppo, alternate ancora ad incontri individuali, ed una fase conclusiva, probabilmente la più difficile, che prevede il coinvolgimento dei familiari nel gruppo di malati.


Dott.ssa I. Siena


VEDI ANCHE: I PARTE
VEDI ANCHE:II PARTE
VEDI ANCHE: III PARTE

lunedì 28 gennaio 2013

GIOCO D'AZZARDO PATOLOGICO: III PARTE


Le fasi più da vicino:il contributo di Custer


 Il giocatore patologico è sicuramente il risultato di una serie di elementi dinamici riferibili alle caratteristiche del soggetto. Tuttavia non è una semplice sommatoria tra i vari elementi che spiega il perché una persona abbia o non abbia sviluppato una dipendenza da gioco. Per la maggior parte delle persone l’evoluzione della dipendenza può essere più lenta e insidiosa.
Secondo Robert Custer esiste una suddivisione in fasi.
La prima viene definita fase vincente ed è caratterizzata dal gioco occasionale. Durante questa fase il soggetto gioca soprattutto per divertirsi ed ha la percezione di vincere con facilità e di poter smettere quando vuole.
 Sempre in questa fase il gioco si fa più frequente, aumenta l’ammontare del denaro impiegato ed anche l’ottenimento di grosse vincite. Tale fase può durare dai tre ai cinque anni ed i giocatori possono vincere più di quanto perdano. È qui che si innesca la dipendenza psicologica e il soggetto è portato a investire sempre più tempo e denaro nel gioco.
A questa fase fa seguito la fase perdente, caratterizzata da gioco solitario ed episodi di perdite, da attività di pensiero sempre più monopolizzata dal gioco e da un primo manifestarsi di coperture e menzogne. Il soggetto non riesce a smettere di giocare e diventa irritabile, agitato. La vita familiare è faticosa e il giocatore chiede forti prestiti ma è incapace di risarcire i debiti contratti. Secondo Custer questa fase dura oltre cinque anni in cui le perdite del giocatore vengono attribuite alla mala sorte. Sembra come se per essere baciati dalla fortuna sia necessario soffrire, toccare il fondo, dimostrare di meritare l’amore della dea bendata,che non potrà tradire chi le è stato fedele. Un misto di Agon (il sacrificio, la costanza e la forza) e di Alea, che alimenta l’idea magica di cui si parlava pocanzi. Il soggetto gioca sempre di più, chiede sempre più prestiti, si racconta che sarà l’ultima volta.
La sicurezza che acquisisce anche con una piccolissima vincita lo fa sentire di nuovo in gioco tanto da ricominciare tutto il ciclo per arrivare progressivamente alla fase della disperazione, in cui ha completamente perso il controllo del gioco, può provare un senso di panico e prestarsi ad azioni illegali anche contrarie ai suoi valori perché alla fine arriverà la grossa vincita che metterà tutto a posto.
La fase cruciale è quella della perdita della speranza, dove si possono trovare pensieri e tentativi di suicidio, problemi con la giustizia, crisi coniugali e divorzi. Sono frequenti momenti di profonda depressione, forte nervosismo, paura difficoltà di memoria e concentrazione, o ancora emicrania ed altri sintomi di forte stress fino a diventare addirittura una fase di astinenza con sintomi fisici correlati.
La fase critica del pensiero di Custer si articola in otto tappe che cominciano quando l giocatore decide di chiedere aiuto: sincero desiderio di aiuto, speranza, smettere di giocare, prendere decisioni, chiarirsi le idee, riprendere a lavorare, trovare una soluzione ai problemi, realizzare programmi di risarcimento. A questa fase fa seguito la fase della ricostruzione in cui si tenta di migliorare i rapporti con i familiari, un maggiore rispetto di sé, la progettazione di nuove mete.
Successivamente si entra nella fase della crescita in cui il giocatore diminuisce la preoccupazione legata al gioco, migliora la capacità di introspezione, aumenta la comprensione verso gli altri, e riprende un certo sentimento di affetto nei confronti degli altri.
Come si può quindi osservare quello del giocatore patologico è un processo lento e insidioso e caratterizzato da fasi  diverse anche se presumibilmente non obbligatorie e ineluttabili. Ciò che manca al contrario sono dati completi su soggetti che non sono poi diventati giocatori patologici per poter capire cosa spinga tali persone a fermarsi o continuare la “carriera”.
Esistono dei modelli predittivi o favorevoli al passaggio da un’attività ludica a un vero e proprio gioco problematico. Ad esempio il gioco patologico si verifica spesso in coincidenza con altri problemi comportamentali, compreso l’abuso di sostanze, disturbi dell’umore e della personalità. La comorbidità costituisce un fattore importante. Ciò che si chiedono gli studiosi è se il gioco problematico o  patologico costituisca una patologia a se stante o se sia semplicemente un sintomo di una comune predisposizione, di ordine genetico o d’altro, come ala base di ogni dipendenza.
Una differenza con i giocatori non patologici è che spesso i gambler riferiscono che i loro genitori erano a loro volta giocatori patologici indicando così la possibilità che fattori genetici o modelli di ruolo possano incidere nel predisporre poi ad un gioco compulsivo.
È opportuno ricordare come, secondo il DSM – IV, il Gioco d’Azzardo Patologico inizi tipicamente nella prima adolescenza nei maschi e più tardivamente nelle femmine.

Dalle motivazioni ai fattori di rischio del gioco


Esistono dei modelli predittivi o favorevoli al passaggio da un’attività ludica a un vero e proprio gioco problematico. Ad esempio il gioco patologico si verifica spesso in coincidenza con altri problemi comportamentali, compreso l’abuso di sostanze, disturbi dell’umore e della personalità. La comorbidità costituisce un fattore importante. Ciò che si chiedono gli studiosi è se il gioco problematico o  patologico costituisca una patologia a se stante o se sia semplicemente un sintomo di una comune predisposizione, di ordine genetico o d’altro, come ala base di ogni dipendenza.
Una differenza con i giocatori non patologici è che spesso i gambler riferiscono che i loro genitori erano a loro volta giocatori patologici indicando così la possibilità che fattori genetici o modelli di ruolo possano incidere nel predisporre poi ad un gioco compulsivo.
È opportuno ricordare come, secondo il DSM – IV, il Gioco d’Azzardo Patologico inizi tipicamente nella prima adolescenza nei maschi e più tardivamente nelle femmine.
Numerosi studi hanno cercato di individuare i fattori di rischio che predispongono a diventare “giocatori d’azzardo impulsivi” o perfino “gioco-dipendenti”, ricorrendo a tre aspetti, generalmente ritenuti in interazione fra loro:
  • ASPETTI BIOLOGICI: relativi a fattori principalmente neurofisiologici, ancora non ben dimostrati, ossia allo squilibrio che si potrebbe determinare nel funzionamento del sistema di neurotrasmettitori cerebrali atti a produrre serotonina, una sostanza chimica cerebrale, responsabile di un equilibrio affettivo-comportamentale, che nei giocatori patologici scenderebbe sotto i livelli comuni rispetto alla media;
  • ASPETTI AMBIENTALI-EDUCATIVI: inerenti sia l’educazione ricevuta e quindi l’ambiente evolutivo caratterizzato da situazioni problematiche e da una tendenza a stimolare e ipervalorizzare le possibilità di felicità legate al possesso del denaro, sia la presenza di difficoltà economiche legate ad esempio allo stato di disoccupazione che sembra un particolare fattore di rischio per l’insorgenza della ludomania;
  • ASPETTI PSICOLOGICI: che talvolta sembrano più connessi alla presenza di tratti di personalità lussuriosa e avara di denaro, talvolta connessi al bisogno di riuscire a dimostrare un controllo sul fato e sul caso, come simbolo del controllo sul mondo che sfugge ad una regolarità.
I giochi che sembrano predisporre maggiormente al rischio sono quelli che offrono maggiore vicinanza spazio-temporale tra scommessa e premio, quali le slot-machine e i giochi da casinò, ma anche i videopoker e il Bingo.
Le fasce più a rischio sembrano invece, tra le donne, le casalinghe e le lavoratrici autonome dai quaranta ai cinquant’anni e, tra gli uomini, i disoccupati o i lavoratori autonomi che hanno un frequente contatto col denaro o con la vendita ed un’età intorno ai quarant’anni.
Riguardo al tipo di patologia in oggetto, il giocatore deve essere superstizioso, per intima necessità, dal momento che esiste un rapporto fondamentale tra superstizione e desiderio di onnipotenza. Nella sua essenza il pensiero magico affonda le sue radici nel bisogno dell’essere umano, specie in condizioni di maggiore precarietà, di neutralizzare la penosa condizione di inadeguatezza di fronte agli elementi ultrapotenti che deve affrontare.

Dominare il desiderio di dominare il fato

Dal momento in cui il gioco d’azzardo patologico è stato riconosciuto come un vero e proprio disturbo psicologico, distinto da altre problematiche, sono stati sviluppati diversi programmi di intervento sul problema che spesso viene ormai affrontato in vere e proprie comunità di recupero. Altrettanto utili sembrano i risultati legati alla partecipazione dei giocatori a gruppi di auto-aiuto per Giocatori Anonimi, fondati su diverse tappe per l’uscita dal problema, dal suo riconoscimento, alla condivisione, ai traguardi verso l’abbandono basati sull’analisi delle tecniche di autoinganno comuni che spesso vengono più facilmente osservate nei racconti degli altri che rispecchiano i propri pensieri. Ciò che va sottolineato è che, attraverso metodi individuali, di gruppo terapeutico, di auto-aiuto o di comunità, gli obiettivi terapeutici vanno sempre centrati sulla possibilità di modificare, oltre che il comportamento di gioco, il substrato cognitivo fatto di pensieri legati all’idea che prima o poi arriverà il giorno in cui il gioco potrà cambiare la propria vita risolvendo magicamente i propri problemi.

Dott.ssa I. Siena


VEDI ANCHE:I PARTE
VEDI ANCHE:II PARTE

GIOCO D'AZZARDO PATOLOGICO: II PARTE


La dipendenza dal gioco (Gambling)


Il giocatore dipendente (gambler) è un appassionato al gioco che ha perso il controllo del suo impulso al gioco, per cui la sua passione volontaria si è trasformata in una necessità irrefrenabile.
La dipendenza dal gioco è l’unica dipendenza legale senza uso di droghe riconosciuta ufficialmente dalla psichiatria americana come un’alterazione psichica originata dal disturbo del controllo degli impulsi.
La dipendenza dagli impulsi consiste, pertanto, in un impulso incontrollato che è accompagnato da una forte tensione emotiva e non si lascia influenzare dal pensiero riflessivo. Quando il dipendente si abbandona al gioco, attraversa un momento di sommo piacere che può raggiungere il livello della sbornia o dell’estasi, causata dalla sensazione che il tempo si sia fermato e dal fatto che il soggetto esce da se stesso per entrare in uno stato di coscienza particolarmente alterato.
L’impulso a giocare del gambler acquista un andamento progressivo e, a questo ritmo, il senso di colpa si nasconde dietro le razionalizzazioni, i ragionamenti apparentemente veri e ingannevoli. L’autoinganno si verbalizza in svariate forme: “Giocherò solo fino a tale ora e a tale momento”; “Dato che sto vincendo, devo continuare…devo approfittare della fortuna”; “Ora che sto perdendo non devo smettere…devo rifarmi”; “Non giocherò più”.
Se il giocatore dipendente perde, tenta di continuare il gioco per riguadagnare i soldi persi, e, se vince, continua a giocare perché sente che è il suo giorno fortunato. In generale, il gambler aumenta il piatto più dopo aver perso, che dopo aver vinto, influenzato dal desiderio di recuperare il denaro.
Quando il gambler tenta di rinunciare al gioco e di resistere all’impulso a giocare, cade in preda ad un profondo malessere in forma di ansietà o di irascibilità, associato a turbe vegetative e disturbi del comportamento che possono culminare in un atto suicida, preceduto o no da una sintomatologia depressiva.
Lo stimolo che può scatenare l’impulso al gioco può essere un fattore esterno o circostanziale, come il luogo, l’ora o la situazione, oppure può essere un fattore interno o personale di tipo affettivo o cognitivo. In entrambi i casi, il gambler arriva alle stesse conclusioni: “Oggi mi sento fortunato, è il mio giorno”.
La base biologica della dipendenza da gioco va dalla iposerotoninergia, indice di mancanza di controllo nel comportamento, alla ipernoradrenergia, che è implicata a sua volta nella frenesia piacevole e nella sindrome di astinenza o di protesta personale.
Non esiste un profilo di personalità specifico particolarmente predisposto alla dipendenza dal gioco, bensì alcuni tratti che coincidono più o meno con quelli osservati in altri tipi di dipendenza, quali la mancanza di autocontrollo (responsabile di comportamenti impetuosi ed impulsivi), la bassa autostima e gli elementi che costituiscono la personalità limite, narcisistica e antisociale. Inoltre, il sovraccarico di stress, la sensazione di solitudine e la difficoltà di concentrare la propria attenzione sono fattori caratteriali o situazionali che, venendo meno la capacità di autocontrollo, facilitano l’insorgenza di tale dipendenza.
Il giocatore d’azzardo patologico presenta spesso la tendenza ad avere idee suicide e ad associare il gioco ad altre forme di abuso come il ricorrere a droghe e alcol.

Sintomi del giocatore d’azzardo "patologico"



Premesso quindi che si tratta di una malattia, le persone affette dal disturbo del gioco d’azzardo patologico presentano una serie di sintomi suddivisibili in:
 
·         sintomi fisici
disturbi alimentari, mal di testa, insonnia, ansia, palpitazioni e tremori 
·         sintomi psichici
ossessione, nervosismo, sensi di colpa, impulsività 
·         sintomi sociali
isolamento, incapacità a gestire il denaro, liti famigliari, problemi lavorativi

Giocare per soldi è il modo più comune di concepire il gioco d’azzardo.
E’ stato ad esempio evidenziato come nei periodi di diffuso benessere ed ottimismo ci si rivolga ai giochi d’azzardo per rispondere ad un bisogno di tipo ludico, di distrazione, di divertimento mentre nei periodi di difficoltà si rivolga al gioco per compensazione: sperando in una vincita che appiani i problemi o possa realizzare un sogno. Nei periodi di diffusa incertezza rispetto a se ed al futuro come quello che stiamo vivendo, invece ci si rivolge al gioco d’azzardo per trovare un “luogo di regressione”, di distacco, un’oasi in un deserto di relazioni e di prospettive : un “luogo” dove si mettono tra parentesi i problemi della quotidianità, le frustrazioni. Un luogo dove ci si appella, si sfida, si corteggia il caso e se questo ci premia ci possiamo sentire scelti e se questo non ci premia è sempre possibile rifarsi.

Dal vizio alla dipendenza: caratteristiche del gioco d’azzardo patologico



Per cominciare ad individuare gli indicatori della patologia da gioco, è estremamente importante chiarire innanzitutto la necessità di operare una distinzione tra giocatori d’azzardo e giocatori patologici . Per molte persone, infatti, numerosi giochi d’azzardo tra quelli elencati sono piacevoli passatempi, in taluni casi occasionali e in altri abituali, ma anche in quest’ultimo caso non significa che il gioco sia necessariamente patologico, dal momento che non è la quantità il fattore discriminante del problema. 
Il giocatore compulsivo si pone lungo un continuum che conta diverse tappe dai confini spesso sfumati che vanno dal gioco occasionale, al gioco abituale, al gioco a rischio fino al gioco compulsivo. Di conseguenza, il gioco d’azzardo patologico si configura come un problema caratterizzato da una graduale perdita della capacità di autolimitare il proprio comportamento di gioco, che finisce per assorbire, direttamente o indirettamente, sempre più tempo quotidiano, creando problemi secondari gravi che coinvolgono diverse aree della vita.
Lungo il continuum tra gioco d’azzardo ricreativo e gioco patologico, in relazione alle motivazioni che sembrano determinare e accompagnare il gioco d’azzardo, sono state distinte le seguenti tipologie di giocatori (Alonso Fernandez F., 1996, Dickerson M., 1993):
  1. il giocatore sociale che è mosso dalla partecipazione ricreativa, considera il gioco come un’occasione per socializzare e divertirsi e sa governare i propri impulsi distruttivi;
  2. il giocatore problematico in cui, pur non essendo presente ancora una vera e propria patologia attiva, esistono dei problemi sociali da cui sfugge o a cui cerca soluzione attraverso il gioco;
  3. il giocatore patologico in cui la dimensione del gioco è ribaltata in un comportamento distruttivo che è alimentato da altre serie problematiche psichiche;
  4. il giocatore patologico impulsivo/dipendente in cui i gravi sintomi che sottolineano il rapporto patologico con il gioco d’azzardo sono talvolta più centrati sull’impulsività e altre volte sulla dipendenza.
Un giocatore veramente dipendente è una persona in cui l’impulso per il gioco diviene un bisogno irrefrenabile e incontrollabile, al quale si accompagna una forte tensione emotiva ed una incapacità, parziale o totale, di ricorrere ad un pensiero riflessivo e logico. L’autoinganno e il ricorso a ragionamenti apparentemente razionali assumono la funzione di strumenti di controllo del senso di colpa e innestano ed alimentano un circolo autodistruttivo in cui se il giocatore dipendente perde, giustifica il suo gioco insistente col tentativo di rifarsi e di “riuscire almeno a riprendere i soldi persi”, se vince si giustifica affermando che “è il suo giorno fortunato e deve approfittarne”, sottolineando una temporanea vittoria che supporta, attraverso una realtà vera ma alquanto instabile e temporanea, questa affermazione interiore o esteriore.



Lo stato mentale di un giocatore patologico è pertanto estremamente diverso da quello di un giocatore anche assiduo non patologico e si caratterizza per il raggiungimento di uno stato similare alla sbornia, con una modificazione della percezione temporale, un rallentamento o perfino blocco del tempo, che nasce da una tendenza a raggiungere uno stato alterato di coscienza completamente assorbiti, fino ad uno stato di estasi ipnotica, dal gioco. Talvolta questa condizione della mente è favorita da un reale consumo di alcolici o di altre sostanze, associato al gioco, che alimenta la perdita di controllo della propria condotta.
Per chiarire le caratteristiche diagnostiche del gioco patologico, è molto importante altre sì distinguere il “vizio del gioco ” dalla “malattia del gioco ”, sottolineando anche che spesso esiste una tendenza ad usare il primo termine per designare impropriamente comportamenti patologici. La distinzione è estremamente importante perché permette di individuare una delle caratteristiche fondamentali del gioco d’azzardo patologico, disturbo siglato in psichiatria G.A.P.: la perdita di controllo sul proprio comportamento, che invece nel vizio è un comportamento volontario, che può essere controllato ed eventualmente interrotto da una persona che, tuttavia, lo mette in atto con volontà e consapevolezza delle connotazioni negative attribuite ad esso da un punto di vista morale.
Un’altra distinzione che è opportuno fare, anche in relazione alla diversa impostazione del possibile percorso terapeutico, è quella tra “dipendenza da gioco”, ossia disturbo primario del gioco , noto anche come “compulsive gambling” o “ludopatia morbosa compulsiva”, e “gioco patologico secondario” , ossia sintomo di un’altra problematica psichica. In quest’ultimo caso, infatti, il gioco patologico può essere considerato come un effetto di un disturbo primario che deve divenire il focus della terapia. Nella “ludomania” invece spesso esistono dei problemi psicologici o psichiatrici che sono conseguenza del circolo vizioso del gioco.
In generale, secondo i criteri classificatori tradizionali della psichiatria, possiamo sintetizzare che siamo in presenza di “Gioco d’Azzardo Patologico” quando esiste un “comportamento persistente, ricorrente e disadattivo di gioco d’azzardo”, intendendo in quest’ultimo caso che il gioco è in grado di avere delle pesanti ricadute negative sulla vita personale, sociale e lavorativa del giocatore (AA.VV., 1994). I segnali di tale problema di dipendenza dal gioco possono essere più comportamenti tra quelli elencati di seguito e, in ogni caso, non riconducibili a conseguenze di altri disturbi primari:
  • eccessivo assorbimento in attività dirette o indirette (programmi di gioco, pensieri su come procurarsi denaro, ecc.) legate al gioco d’azzardo;
  • bisogno di aumentare la quantità di denaro con cui si gioca per raggiungere livelli di eccitazione desiderati;
  • tentativi ripetuti ma infruttuosi di interrompere, ridurre o controllare il proprio comportamento di gioco d’azzardo;
  • ansia o irritabilità quando si tenta di controllare o ridurre il gioco d’azzardo;
  • tendenza ad utilizzare il ricorso al gioco d’azzardo per ridurre stati affettivi negativi (colpa, impotenza, depressione, ecc.) o per fuggire a problemi;
  • tendenza a ritornare al gioco per rifarsi dalle perdite precedenti;
  • propensione a mentire sul proprio comportamento di gioco;
  • perdita reale o grave rischio di perdita, a causa del gioco d’azzardo, di una o più relazioni importanti oppure compromissione del lavoro o di opportunità scolastiche;
  • ricorso a comportamenti illegali quali furti, frodi, baro, falsificazione;
  • richiesta ad altri di denaro necessario per rimediare alla propria situazione finanziaria più o meno disperata a causa dei debiti di gioco.
Si può parlare di una vera e propria “dipendenza dal gioco d’azzardo” se sono presenti sintomi di tolleranza, come il bisogno di aumentare la quantità di gioco, sintomi di astinenza , come malessere legato ad ansietà e irritabilità associati a problemi vegetativi o a comportamenti criminali impulsivi e sintomi di perdita di controllo manifestati attraverso incapacità di smettere di giocare. Se prevalgono altri sintomi maggiormente legati al deficit nel controllo degli impulsi, il comportamento di gioco patologico impulsivo va ricondotto soprattutto ad un problema in quest’area, senza che si possa necessariamente parlare di dipendenza.

Dott.ssa I. Siena

domenica 27 gennaio 2013

GIOCO D'AZZARDO PATOLOGICO: I PARTE




«Lo invase all’improvviso, mentre era seduto al tavolo verde. Non era la prima volta: conosceva bene quell’inarrestabile sensazione di soffocamento che lo prendeva alla gola. Per qualche minuto, mai di più. Un attacco di panico in piena regola, come ne aveva avuti tanti altri. Accompagnato da tachicardia e palpitazioni, mentre il respiro diventava sempre più corto. Gli sembrava che il cuore si fermasse, che scoppiasse. Invece era la sua mente a essere stretta in un cerchio bollente. Perdeva forte, quella sera, anche a chemin de fer, il gioco al quale si era sempre ritenuto imbattibile. «Perchè lì non basta la fortuna, lì ci vuole la logica», amava ripetere. E lui, in quanto a logica e raziocinio, era senza dubbio il migliore.
Invece perdeva. Non aveva fatto altro, quell’ultimo anno. In totale era sotto di ottocento milioni; molto anche per lui, imprenditore che ne aveva passate di tutti i colori, che con il suo lavoro e la sua abilità aveva sempre guadagnato cifre esorbitanti. Che tante volte era finito nella polvere e che si era rialzato. Che aveva vinto nella vita e nel gioco.
Aveva giocato otto milioni di lire, quella notte. Non molti, per le sue medie, ma non aveva altro. Anzi, quei soldi erano l’anticipo che gli aveva dato un cliente su una commissione che avrebbe dovuto presto onorare.
Incredibile, pensò mentre la morsa alla gola finalmente si allontanava; se sei ricco, giochi cinquanta milioni senza tremare, resti lucido. E vinci. Se invece affidi a quattro soldi tutto te stesso, perché sei pieno di debiti, e vincere è la tua sola speranza...allora crolli, ti fai prendere dall’angoscia. Proprio come sta accadendo a me, ora».

Si tratta di una delle testimonianze raccolte da Silvana Mazzocchi in una struttura della ASL addetta al trattamento di ex giocatori d’azzardo patologici.
Ci sono molte tipologie di giocatori e molteplici fattori che inducono alla scelta di questa via di sfogo dei propri impulsi, ma di questo parlerò nelle pagine seguenti.

Introduzione al gioco d’azzardo
  
Il gioco trasferisce ricchezza senza produrne.
Il volume ufficiale del gioco d’azzardo è un iceberg che allude a un altro mostro sommerso, fatto di gioco clandestino o non dichiarato. Di anno in anno le cifre aumentano e nonostante la punta si faccia più evidente, ciò che rimane sommerso batte ogni fervida immaginazione. Sostituisce la speranza, e se la realtà del giocatore si fa intrisa di speranza allora accade che non si necessita più di un oggetto di compensazione ed i volumi si abbassano temporaneamente per riemergere al variare delle circostanze.                                                                                                                                                                                                                                             
Negli anni varia anche la modalità di introduzione di nuovi giochi. Inizialmente tutto si fondava sulla speranza di forti vincite ottenute con piccole somme di denaro; “vincere un terno al lotto o fare tredici” sono espressioni divenute sinonimi del linguaggio comune di un imprevisto colpo di fortuna.
È noto che la psicologia profonda del giocatore è segnata dal divieto interno di vincere. Questo divieto assicura che le piccole quote vinte così spesso nei giochi istantanei vengano immediatamente reinvestite in acquisti di altri biglietti.
La ripetizione del gioco nasconde la ri-petizione della speranza e del suo tempo da parte del giocatore. Con la coazione a ripetere il giocatore curva il tempo, trasforma il futuro in vigilia e si dissocia dal presente poiché con l’illusione si inganna il reale. Un’estrazione, l’arrivo di una corsa di ippica, l’ultima monetina, rappresentano il capolinea di questa operazione emotiva ma anche il giro di boa da cui poter ricominciare.
Quell’illusione che inganna il reale però è anche un espediente vitale proprio perché consente di sopravvivere. Il gioco insomma è vizio, ma anche espediente vitale di sopravvivenza ed è denuncia implicita delle carenze del mondo anche se in definitiva serve anche ad ammortizzare la povertà dal punto di vista sociale.
Il gesto è antichissimo: la dea è bendata e si chiede alla dea di essere visti  e graziati. Il costo del biglietto equivale ad un’offerta votiva per impetrare la sua attenzione. La coazione a ripetere ha facile gioco e sull’altare della dea le piccole vincite si bruciano come candele.
Giocare insegna fin da piccoli a stare bene con gli altri e a sviluppare la creatività. Ma quando diventa un vizio produce una dipendenza che deve essere curata.
I piccoli giocano per apprendere e attraverso questo mezzo crescono.
Nell’adulto invece, è un atto volontario, che ha spesso uno scopo ben preciso e si svolge sotto la guida dell’intelligenza; solitamente nel gioco i grandi esprimono i sentimenti e tendono a dare un fine all’attività. Giocare bene è fondamentale perché aiuta a sperimentare situazioni nuove, a vivere meglio ed è sinonimo di immaginazione creativa. La fantasia e il gioco hanno anche funzione terapeutica, insegnano a stare bene con gli altri, ad affrontare situazioni nuove, aiutano a compensare le frustrazioni e a difendere da ansia e insicurezze. Sono un'ottima cura per i disturbi del carattere e le conflittualità.
Il gioco d’azzardo nasce sulla base della propensione umana che spinge ad associare il gioco al rischio dei propri soldi e beni. Nella storia si sono sviluppate numerose tipologie di giochi a rischio che si associano alla casualità, le cui tracce sono riscontrabili sia nei reperti archeologici sia nei vecchi manoscritti provenienti dalla Cina, Giappone, Grecia ed Egitto.
Anche nell’antica Roma non erano rare le scommesse sui combattimenti dei gladiatori, le cui puntate erano chiamate “munera”.La parola azzardo deriva dal francese “hasard” e dall’arabo “azzahr” che significava dado, uno degli oggetti più vecchi legati alla tradizione ludica (del gioco). Il gioco di azzardo si diffonde poi con la vasta gamma di tipologie di giochi, sempre più legalizzati, così che i giocatori si dividono tra slot machine nei casinò, videogiochi reperibili nei bar e negli esercizi pubblici e lotterie popolari.
Il giocatore d’azzardo solitamente è una persona che usa il gioco come passatempo occasionale o abituale senza mai perdere il controllo e non necessariamente si trasforma in “dipendente”.
Lo sviluppo sociale del problema del gioco d’azzardo è in parte favorita anche dalle crescenti possibilità di scelta tra una vasta gamma di tipologie di gioco, ormai sempre più legalizzate, che riescono a rispondere alle simpatie dei giocatori con diverse propensioni e con differenti personalità. Così i giocatori d’azzardo vanno dagli amanti della trasgressione da gran salone, come quella dei giochi da Casinò e delle slot-machine, agli appassionati dei videogiochi che si lasciano conquistare dai sempre più diffusi videopoker, agli appassionati dei giochi d’azzardo popolari, come le lotterie, il gioco di numeri e di schedine, fino al Bingo, la moderna trasformazione del gioco della tombola, che riesce a conquistare anche interi gruppi grazie al suo profondo legame con il vissuto di una concessa usanza festiva a dimensione familiare.
Esistono almeno tre funzioni svolte dal gioco. Una prima, esistenziale o biologica, serve a compensare la realtà per convivere con essa. Questa vocazione psicologica trasferita sul piano pubblico e collettivo diviene un importante ammortizzatore sociale delle crisi. Il gioco ha una sua predisposizione interna che supera le barriere geografiche, limiti temporali e specificità culturali. Questa funzione è stata chiamata biologica proprio per la sua centralità esistenziale.
Una seconda funzione è quella pubblica - ludica in cui c’è l’esplicitazione del benessere, diversa dalla prima che serve alla compensazione di un malessere.
Mentre una terza è rappresentata dalla funzione regressiva del gioco per eccesso d’uso della funzione biologica, come se la benefica modulazione della distanza dalla realtà divenisse una vera e propria fuga o separazione dal reale. Si ha quindi quando la funzione biologica non è più un’opzione ma una necessità, inevitabile e obbligata come un senso unico.

Quando diventa patologia

Dal 1980 la letteratura psichiatrica ha riconosciuto la dipendenza da gioco come patologia psichiatrica.
Circa l’eziologia, il G.A.P. è una malattia mentale che è stata classificata dall'APA (American Psychiatric Association) all'interno dei "Disturbi del controllo degli impulsi" e che ha grande affinità con il gruppo dei Disturbi Ossessivo-Compulsivi (DOC) e soprattutto con i comportamenti d'abuso e le dipendenze. Questo disturbo può presentare infatti caratteristiche comuni con la patologia ossessivo-compulsiva, che consistono principalmente nella tendenza al ritualismo, nell’attenzione per il numero e il calcolo, in elementi di pensiero magico-superstizioso; del comportamento compulsivo manca però l’elemento dell’egodistonia. Maggiori invece le affinità, come il craving, la tolleranza e la difficoltà a interrompere, con le patologie da dipendenza, a tal riguardo il G.A.P. è stato spesso definito "dipendenza non farmacologica”. Lo stato di euforia e di eccitazione del giocatore d’azzardo durante il gioco è paragonabile a quello prodotto dall’assunzione di droghe, e come avviene per la dipendenza da droghe anche i giocatori d’azzardo possono soffrire di crisi di astinenza, ansia, sudorazione, nausea, vomito e tachicardia.
Si parla di dipendenza proprio quando l’orizzonte si restringe attorno all’oggetto su cui la persona si concentra o su cui sente di poter riflettere tutti i suoi desideri e tutti i suoi bisogni. Scegliendo un comportamento rischioso come il gioco d’azzardo o cercando in maniera esagerata conferme basate sull’ammirazione degli altri la persona mostra uno squilibrio personale reso stabilmente drammatico dall’incontro con “l’oggetto delle mie brame” o con l’abitudine di cui la persona diventerà dipendente.
In generale una persona soffre di questo disturbo se, quando cerca di interrompere il gioco, diventa particolarmente irritabile e irrequieta, se ha bisogno di giocare sempre di più, se incomincia a raccontare bugie in famiglia e agli altri e se arriva a commettere azioni illegali pur di giocare mettendo a rischio anche il proprio lavoro.
Il processo per diventare giocatori patologici è piuttosto lento, pericoloso e costituito da varie fasi.
Inizialmente il gioco è occasionale, un passatempo in compagnia di amici e famigliari e il giocatore vince più spesso delle volte che perde; di solito vince grosse somme così che in lui si instilla l’idea di essere più abile rispetto agli altri. La persona a questo punto inizia a dedicare sempre più tempo e denaro nel gioco e passa alla fase successiva, caratterizzata da un numero superiore di perdite rispetto alle vincite. Il giocatore viene a questo punto spinto da un turbinio, che lo invoglia a scommettere sempre di più nel tentativo di recuperare il denaro perduto; comincia a chiedere prestiti, a indebitarsi e entra in uno stato di disperazione, con conseguente esaurimento emotivo. Alla fine perde la speranza, si susseguono liti e crisi familiari, e molto spesso iniziano i guai con la giustizia. Dalla prima all’ultima fase possono trascorrere anche più di dieci anni.
È una delle prime forme di “dipendenza senza droga” studiate che ha ben presto attratto l’interesse della psicologia e della psichiatria, ma anche dei mezzi di comunicazione di massa, degli scrittori e dei registi, al punto che si continua spesso a riparlarne in relazione alle sue conseguenze piuttosto serie sulla salute ed in particolare sull’equilibrio mentale che questo tipo di problema è in grado di produrre. Nella ludodipendenza il vero senso del gioco, attraverso cui si può costruire e scoprire il Sé - quello che vuol dire libertà, creatività, apprendimento di regole e ruoli, sospendendo le conseguenze reali - viene completamente ribaltato per trasformare la cosiddetta “oasi della gioia” in una “gabbia del Sé”, fatta di schiavitù, ossessione, ripetitività.

Dott.ssa I. Siena



venerdì 25 gennaio 2013

ADOZIONE: III PARTE


Terza fase: il periodo adolescenziale nelle famiglie adottive


Gli adolescenti si trovano in un periodo di cambiamento di ruolo sociale; cambiamento che comporta un processo di autonomizzazione dalle figure genitoriali e l'assumersi maggiori responsabilità all'interno della società. La maggiore autonomia porta il giovane a voler prendere da sé le proprie decisioni e a voler rispettare anche le proprie opinioni personali.
Il rapporto con i genitori si fa più difficile, perchè l'adolescente non gradisce le loro ingerenze in rapporto alle amicizie, alla sua vita privata, ma nello stesso tempo ciò non impedisce che sia proprio lui a chiedere consiglio per questioni personali. Nel corso dell'adolescenza cambia l'immagine che i giovani hanno dei propri genitori, rispetto al periodo precedente, li vedono più come persone che possono sbagliare.
La maggiore autonomia comporta che gli adolescenti si distacchino dalla famiglia anche da un punto di vista emotivo e che cerchino di stringere nuove relazioni sociali. Entrare in altri ambienti implica anche doversi confrontare con le attese in essi esistenti. La natura della relazione fra genitori e bambino prima dell'adolescenza contribuisce a determinare in che misura l'adolescente sia preparato ai compiti legati allo sviluppo psicosociale.
La famiglia risulta importante per trasmettere valori e per veicolare le fondamenta di uno stile di vita. Le figure genitoriali sono in grado di rispondere a molti bisogni dell'adolescente. Un bisogno di fondo per l'adolescente è quello di avere una buona comunicazione con i genitori, essenziale per negoziare con loro, prendere decisioni, esprimere preoccupazioni e, in parte, per avere il riconoscimento del proprio nuovo status all'interno della famiglia.
L'adolescenza è, quindi, il periodo in cui le spinte all'autoaffermazione e all'autonomia si fanno più pressanti. Ma è anche il momento in cui affiora la coscienza di essere una persona: l'adolescente tende a chiedersi " chi sono?" e tale interrogativo lo pone in un confronto al suo futuro ma anche al suo passato, a quello che è stato.
Nelle famiglie adottive spesso con l'adolescenza del figlio emergono problemi relazionali, talvolta anche drammatici. La crisi coinvolge sia il ragazzo, soprattutto quando in famiglia sono stati accantonati i problemi relativi alla separazione dai genitori naturali e all'origine, attraverso mistificazioni della verità, segreti, sia i genitori che vivono con preoccupazione i tentativi di svincolo del figlio, perchè evoca in loro la paura dell'abbandono.
Nell'adolescenza, parallelamente alla ricerca dell'identità del figlio, possono emerge problemi relativi alla percezione genitoriale, ai vissuti di inadeguatezza e di autovalutazione circa l'impossibilità di generare, la mancata elaborazione della sterilità, l'insicurezza riguardo le proprie capacità educative ed affettive. Inoltre la volontà del figlio adottato di ricercare le proprie origini, fenomeno assolutamente normale, può essere vissuto dai genitori come rifiuto di un presente sentito come poco gratificante.
Questi fenomeni richiedono alla famiglia la capacità di mettere in discussione la propria organizzazione relazionale. In alcuni genitori c'è una difficoltà a favorire il naturale processo di autonomizzazione per le angosce connesse alla separazione e al temuto distacco affettivo definitivo. Difficoltà che portano i genitori a mostrarsi iperprotettivi, rendendo difficoltoso per i figli un processo di distacco e di individuazione.
Questo atteggiamento è presente soprattutto nelle famiglie in cui il figlio adottato è stato sentito come qualcosa che colmava un grande vuoto e quindi il timore di perdere il figlio è molto marcato.
Inoltre l'adolescenza del figlio viene spesso vissuta come prima verifica, da parte dei genitori, di ciò che si è seminato e, da parte del figlio, di ciò che si è ricevuto. Nel fare ciò il figlio si rivolge spesso al passato, alla ricerca di un punto di riferimento. Quindi la ricerca delle proprie origini è conseguente alla ricerca di un identità. Infatti se il ragazzo non riesce a trovare nel presente elementi che lo aiutino a definirla, egli sarà costretto a ricercarli nel passato.
Spesso la ricerca dei propri genitori si esaurisce magari quando essa sta per avere esito positivo, perchè l'adolescente adottato sembra aver più bisogno di un'immagine di genitore naturale buono, rassicurante, che del genitore reale, per esorcizzare le fantasie di abbandono e di senso di vuoto che attraversa in questo periodo.
Si può manifestare in alcuni genitori anche la tendenza a vedere la diversità del figlio come frutto di un fattore ereditario che è temuto e che risveglia vissuti di estraneità. Ma atteggiamenti provocatori e aggressivi del ragazzo sono solo l'espressione, come al momento del primo abbandono, di paure e timori. Pertanto l'adolescenza richiede che la famiglia sia in grado di rimettere in discussione i propri modelli transazionali. In particolare i genitori devono essere disposti a cambiare i propri schemi educativi e a distinguere tra bisogni reali e bisogni presunti del figlio.
L'adolescente, infatti, può risolvere le sue difficoltà e continuare a crescere soltanto se si sente pienamente accettato e se ha fiducia nelle proprie capacità di diventare autonomo. Ciò sarà legato naturalmente a come i genitori adottivi hanno vissuto la sua origine e l'adozione stessa.
Rivestono particolare importanza nelle famiglie adottive in cui ci sono adolescenti le entrate e le uscite dei membri familiari, in quanto modificano profondamente non solo la struttura ma anche il funzionamento familiare. Secondo quest'ottica, attraverso l'adozione, si acquisisce un membro "sui generis" perchè stabilisce un legame di parentela, pur non essendoci un legame di consanguineità.
In un'ottica sistemica, infatti, l'adozione viene definita come un evento "non normativo" o "paranormativo", perchè a differenza dell'adolescenza, che è un evento normativo, non rientra negli eventi che normalmente vengono vissuti e affrontati dal nucleo familiare. Ma è comunque un evento che è stato scelto e programmato: questo consente ai genitori un maggiore controllo di una situazione che è a rischio, essi possono infatti prevedere i vantaggi e gli svantaggi di questa decisione, anticiparne le conseguenze e attivare adeguate strategie di coping. Come tutte le situazioni che presentano dei rischi, però, il superamento dell'evento adottivo non è automatico e neanche scontato. E per essere vissuto come momento di crescita e di sviluppo per tutti i membri coinvolti è necessario che vengano attivate risorse non solo personali ma anche familiari e sociali.
"Il compito evolutivo che genitori e figli si trovano a dover affrontare potrebbe essere sintetizzato nel seguente modo: "costruire una continuità tra le generazioni senza negare le differenti origini".
Si tratta cioè di trovare un equilibrio dinamico tra due poli altrettanto "rischiosi": da una parte l'assimilazione al figlio biologico che nega la peculiarità della condizione di figlio adottivo, dall'altra l'accentuazione della differenza che non riesce ad integrare il figlio adottivo nella storia familiare, fino ad espellerlo. La configurazione relazionale delle famiglie adottive è, in questo caso, sui generis e richiede una specifica costruzione congiunta di "confini" tra i membri delle varie generazioni" (R. Rosnati, 1996).

Fattori di rischio e fattori protettivi nel "patto adottivo"

Bramanti e Rosnati, attraverso una ricerca condotta su un campione di adolescenti adottati, convalidando l'ipotesi di una maggiore vulnerabilità psicologica degli stessi rispetto ai loro coetanei non adottati, hanno cercato di individuare i fattori protettivi che incidono sull'adattamento dei minori adottati.(Bramanti, Rosnati, 1998).
In particolare le autrici si sono chieste come mai alcuni adolescenti adottati evolvono verso un normale adattamento e altri verso il disadattamento, o anche verso la patologia.
Un concetto molto importante che hanno evidenziato è quello di rischio, inteso, in senso evolutivo, non solo come ostacolo da superare, ma anche come opportunità di cambiamento. Secondo le autrici, infatti, il rischio è lo sbilanciamento fra sfide e risorse. Esso, infatti, diventa ostacolo quando le sfide che devono essere affrontate superano le risorse che si hanno a disposizione.
In questo senso l'adozione è una situazione che presenta dei rischi che le famiglie devono essere in grado di gestire per accogliere la sfida che la scelta di adottare necessariamente comporta. Solo in questo caso essa potrà diventare un momento di crescita per l'intero nucleo familiare.
Le autrici individuano tre ambiti in cui si manifesta la situazione di rischio psicosociale per l'adolescente: l'autostima, la socializzazione e il rendimento scolastico.
Mentre i fattori protettivi nello sviluppo psicologico dell'adolescente adottato sono la qualità della comunicazione con i genitori, e in particolare con la madre, e il senso di appartenenza alla famiglia adottiva. Secondo le autrici la costruzione del legame adottivo fra la madre e il figlio è il punto centrale dell'intera vicenda adottiva. Attraverso questo legame, infatti, si gioca la riuscita o il fallimento dell'adozione, la possibilità del bambino di integrarsi nel nucleo adottivo. Compete alla madre il compito di costruire quell'anello tra le generazioni che lega il figlio alla famiglia e lo inserisce nella storia delle generazioni.
Un altro fattore protettivo è la percezione da parte dei genitori adottivi del figlio con risorse o senza risorse. Se, infatti, al primo incontro il bambino verrà visto come qualcosa di prezioso, riconoscendone le risorse, i genitori entreranno in relazione con lui non solo come creditori, ma anche come debitori, sarà una relazione alla pari. Se, invece, il figlio verrà percepito solo nei suoi aspetti carenti, malati, l'immagine che il genitore avrà di se stesso sarà un'immagine salvifica e onnipotente, con cui il genitore cercherà di sostituire quella di genitore sterile, cioè mancante. Se tale immagine non si modificherà con il tempo, il figlio verrà imprigionato nella figura del creditore. Così ciò che il figlio restituirà ai genitori, per loro non sarà mai abbastanza, perchè essi gli hanno fatto un dono grandissimo, adottandolo, che difficilmente potrà essere ripagato. Altro fattore è rappresentato dalla presenza accogliente della famiglia estesa. I nonni infatti rivestono un ruolo molto importante durante tutto il percorso adottivo.
All'interno di ogni famiglia in cui ci sia uno o più figli adottati viene stipulato il cosiddetto "patto adottivo" che è il frutto di un assetto relazionale in cui vengono rispettati sia i bisogni sia le aspettative di ciascuno dei protagonisti: la coppia e il minore.
Tale patto non è immodificabile, ma si snoda nel tempo.
Dalla ricerca presentata da Bramanti e Rosnati, che suddivide le famiglie del campione secondo cinque tipologie di patti, emerge che le famiglie in cui l'adozione è "riuscita" hanno stipulato patti in cui c'è un riconoscimento e valorizzazione delle differenze. Mentre nelle famiglie dove c'è un patto riuscito solo a metà, in cui i rapporti fra genitori-figli sono molto conflittuali, la situazione appare piuttosto critica. Le ultime due tipologie evidenziate fanno riferimento a patti in cui le differenze o sono state negate (patto di negazione) o sono troppo insistite (patto impossibile). Secondo le autrici le famiglie che hanno stipulato patti simili sono a forte rischio di patologia.



Vedi anche: