lunedì 25 febbraio 2013

LA DOTT.SSA SIENA A VIOLINO TZIGANO

 La Dott.ssa Ivana Siena Psicologa-Psicoterapeuta Familiare ospite alla trasmissione televisiva "Violino Tzigano" puntata del 18/02/2013 condotta da Gianni Lussoso 


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sabato 23 febbraio 2013

AUTOSTIMA


Così come mi vedo
Stare bene con se stessi vuol dire stare ben con gli altri. Una delle maggiori richieste rivolte a specialisti della psicologia è come migliorare il rapporto con gli altri, con il partner, con i genitori, con i colleghi. La tendenza a percepire l’altro con cui si entra in relazione come “problematico” è molto comune e racchiude difficoltà di comunicazione per le quali non si riesce a vedere chiaramente una possibilità di risoluzione.
Questa sensazione costante e pervasiva ha in realtà a che fare con la percezione che si ha di sé, spesso messa in crisi proprio dagli altri intorno che, sempre attraverso la comunicazione, ci danno conferme o apparenti dimostrazioni di ciò che siamo. Non sempre, però, l’immagine che gli altri ci rimandano indietro è corretta, oggettiva, spassionata; è anzi facile che sia distorta da pregiudizi, bisogni, e tutto ciò che necessitano di vedere in noi per esorcizzare le loro paure.
L’idea che abbiamo di noi stessi è una costruzione molto complessa, della quale non siamo nemmeno pienamente consapevoli ed si può racchiudere nel concetto di autostima.
L’autostima è la percezione che si ha di sé, quella che si costruisce proprio attraverso i feedback di cui parlavamo sopra. Si possono individuare almeno cinque importanti aree della vita quotidiana attraverso le quali si costruisce: quella sociale, quella scolastica/professionale, familiare, estetico-corporea, intellettivo-culturale (la sensazione di avere delle abilità mentali ed una cultura adeguate e valorizzate nel proprio ambiente). 
Questa valutazione di sé è dinamica e si muove nel tempo su un continuum che prevede due estremi, quello positivo e quello negativo.
La bassa autostima aumenta il senso di insicurezza ed inadeguatezza, la convinzione di non essere in grado di  poter contare su se stessi e di essere quindi padroni della propria vita in quanto il pensiero e, ancora peggio, il giudizio degli altri sono fondamentali alla propria sopravvivenza emotiva. La prima cosa di cui è importante rendersi conto è il fatto che già la semplice idea che ci siamo fatti di noi stessi tende a condizionare il nostro comportamento in modo tale da “autoconfermare” l’idea stessa: è il cosiddetto effetto di “profezia che si autoavvera”. Nei casi di bassa autostima, la profezia è di tipo catastrofico e viene quindi confermata di volta in volta dal bisogno impellente di fare di un altro esterno il nostro punto di riferimento in quanto “Io non sono capace da solo” di decidere, agire, pensare. Nei casi più gravi sorge una dipendenza verso l’esterno che conferma quindi il proprio sentirsi inutili e invisibili.
Non da meno risulta l’eccesso opposto del continuum in cui un’alta autostima, che come dicevamo è necessaria per star bene con se stessi e con gli altri, può diventare a suo modo un  problema. Troppa sicurezza di sé,  la convinzione di star facendo sempre e comunque la cosa giusta, impediscono una visione obiettiva della realtà. Questa modalità prevede che la persona non riesca più a confrontarsi con il mondo esterno e ritenga di possedere una saggezza interna che non le permette di accorgersi dei propri errori.
Non si nasce con la giusta autostima, essa va piuttosto coltivata, curata, alimentata durante il corso dell'esistenza. Una sana autostima permette di percepirsi in modo realistico e di riequilibrarsi costantemente e in maniera indipendente dal giudizio altrui.
La lotta al miglioramento continuo richiede un impegno costante nel tempo e una volontà forte di mettersi in gioco in prima persona, lavorando sulle proprie percezioni e su ciò che le ha radicate a partire dall’infanzia fino all’età adulta.
Una chiave di svolta importante inoltre sta nel valore soggettivo della diversità e della differenziazione rispetto agli altri e al mondo esterno, dove per differenziazione si intende autodefinirsi ed individualizzarsi, per evitare la fusione relazionale e conservare l'obiettività emotiva  all'interno del sistema a cui si appartiene.

dott.ssa Ivana Siena
Centro di Psicoterapia Familiare

venerdì 22 febbraio 2013

DISABILITA'


LA FAMIGLIA DI FRONTE ALL’HANDICAP



I legami che uniscono i membri di una famiglia hanno caratteristiche ben definite: sono fortemente vincolanti, presentano cioè una libertà limitata; sono strutturati secondo una gerarchia; sono fondati su processi di reciprocità e di reciproca lealtà.
Per quanto riguarda la gerarchizzazione dei rapporti essi sono prevalentemente regolati in base alle generazioni.
Queste considerazioni sono da tenere presenti anche nel caso delle presenza di un figlio che presenta un handicap, che pur limitandone l’autonomia, non ne annulla comunque un’evoluzione parziale verso forme ed esigenze di vita adulta. Gli aggiustamenti da trovare saranno più complessi non potendo contare su parametri socialmente riconoscibili e condivisi. Il cammino verso il ruolo adulto andrà incoraggiato anche dai genitori, che tendono a viverlo come “figlio per sempre”.
Per quanto riguarda la relazione di attaccamento va sottolineato che essa regola anche il concetto di lealtà, di affidabilità del legame.
Boszormenyi-Nagy e Spark mette in luce gli aspetti di dovere del legame, dovere che si esprime secondo leggi che implicitamente lo governano, “fibre invisibili, ma solide” che vincolano le relazioni familiari. Gli autori ipotizzano la presenza di “conti” inconsci tra il dare e l’avere del legame familiare, conti che debbono essere saldati secondo criteri di giustizia, pena l’esperienza del malessere psicologico.
Può apparire che il soggetto disabile sia sotto questo profilo, inadempiente, sempre creditore e mai debitore nella relazione.
Se opportunamente condotto nella propria strada di sviluppo, il disabile può “pagare” almeno in parte e con forme simboliche, il suo debito alle generazioni precedenti non solo con il riconoscimento affettivo ma anche operativamente, facendo esperienza di valorizzazione di se stesso e di “consolazione” verso gli altri membri della famiglia.
Se torniamo al concetto di famiglia come sistema capace di conservazione dei propri livelli organizzativi e di cambiamento vedremo che sarà sempre necessario al suo interno una forma di negoziazione. Ciò che deve essere maggiormente negoziato in ogni sistema è la distanza interpersonale tra i membri che include chi è dentro e chi è fuori dalla famiglia.
Minuchin ha descritto le famiglie in base agli stili che la caratterizzano, mettendo in luce i termini di distanza e vicinanza interpersonale:
-         Disimpegnate: caratterizzate da una grande distanza psicologica e affettiva tra i membri, con poca condivisione e legami di attaccamento di tipo evitante. Questo tipo di famiglia tenderà a sottovalutare le difficoltà del soggetto disabile, che si troverà solo di fronte ai suoi limiti;
-         Invischiate: tutti i membri della famiglia si occupano degli affari di tutti, mostrando forme di attaccamento ansioso-ambivalente, che rendono faticoso un processo di individuazione e separazione tra i membri. La famiglia del disabile apparirà iperprotettiva e faticherà a vedere le risorse evolutive del disabile, limitandolo nell’esplorazione con il contagio della propria ansia.

In ogni situazione familiare i compiti di assistenza e di lealtà reciproca, di vicinanza o di distanza interpersonale, possono essere utilizzati per esercitare espressioni di potere: anche in nome della malattia è possibile esercitare un potere, e nascondersi dietro ad essa, manipolando inconsciamente gli equilibri del rapporto e stravolgendo perfino l’ordine generazionale.
Analizzeremo ora come questo avvenga nella coppia, nella famiglia estesa e tra i fratelli.
La coppia e l’assistenza
Nella società attuale nell’ambito lavorativo la donna e l’uomo sono considerati intercambiabili, mentre nell’area domestica le mansioni sono rimaste fissate nell’organizzazione tradizionale: è frequente perciò che la donna abbia di fatto un doppio lavoro, uno come casalinga e uno come lavoratrice con reddito proprio.
La posizione della donna, già faticosa in condizioni consuete, diventa drammatica con l’ingresso nella famiglia della disabilità.
Accade perciò che donne/madri interessate al proprio lavoro si trovino improvvisamente ad un bivio esistenziale penosissimo: il dover scegliere tra il bene del proprio caro e la propria realizzazione personale. Tutta la comunità, compreso il padre e i riabilita tori avvallano la teoria del sacrificio, non prevedendo gli effetti nefasti sulla relazione familiare di un sentimento depressivo della donna, suscitato dalla convinzione di aver fatto una rinuncia troppo grande.
Che cosa accadrà, per esempio, tra madre e figlio se questi non sarà in grado di ricompensare il sacrificio materno con risultati brillanti nella riabilitazione? E ancora: quale sottile potere sarà dato in mano al figlio che può frustrare la madre che ha riposto in lui la sua autostima? Quale responsabilità toccherà al padre, che ha richiesto implicitamente alla propria compagna il sacrificio della realizzazione professionale?
L’handicap, come abbiamo accennato, si presta meravigliosamente ad essere un paravento dietro cui si possono nascondere fini occulti di controllo e di potere: la richiesta di assistenza completa da parte di una moglie richiesta dal marito può nascondere il desiderio intimo di renderla dipendente; la coalizione moglie-madre può essere un tentativo di escludere il coniuge, considerato incapace, dalle scelte familiari nei confronti del disabile….
Anche nei casi più fortunati in cui i coniugi riescono a conservare l’alleanza di coppia, il problema di sentire il figlio come perpetuo terzo pone un’alta carica di ansia verso prospettive future, con perdita per entrambi di uno spazio indispensabile all’esperienza duale.
Nelle malattie degenerative, ad esempio, la diagnosi pone la famiglia di fronte alla famiglia un verdetto tragico in cui è contemplato solo un peggioramento progressivo che non di rado ha come esito la morte. La coppia deve perciò abbandonare bruscamente il proprio progetto di vita, progetto che lascia spesso il posto unicamente alle aspettative di morte. L’improvvisa transizione fa riemergere a livello conscio l’intera storia familiare e personale con tutto il suo bagaglio di risorse ma anche di aree problematiche, talvolta inespresse. Ecco allora che sensi di colpa per mancanze vere o presunte, rimpianti per progetti irrealizzati, sofferenze per lutti non elaborati, irrompono in questo scenario già saturo di angoscia scatenando una reazione di negazione e di fuga. La coppia cercherà di ricercare un tempo “riparatorio” per rinforzare il cordone difensivo per immobilizzare il tempo e lo spazio: lo spazio diventa statico ed il tempo negato.
In questo senso il terapeuta della famiglia si dovrà da “ponte”, ovvero come interlocutore per coniugare le scelte dei genitori e le esigenze del figlio.

LA FAMIGLIA NUCLEARE E LA FAMIGLIA ESTESA

Le famiglie quando incontrano difficoltà, non tendono a ricorrere immediatamente all’aiuto dei servizi pubblici, ma cercano piuttosto l’appoggio della parentela.
Il problema della giusta distanza dalle famiglie di origine, senza né vissuti di abbandono ed emarginazione, né di delega o squalifica può sembrare insormontabile: se saranno disponibili a lasciarsi coinvolgere, in tempi successivi potrebbero diventare fonte di interferenze; se non saranno disponibili presenteranno una delusione così amara da riuscire perfino intollerabile.
I processi di inclusione/esclusione più evidenti sono quelli diretti verso membri significativi della famiglia estesa: sono, infatti, una sorta di vaso comunicante con la famiglia nucleare, verso cui e da cui rifluiscono le situazioni di disagio emotivo.
E’ frequentissimo notare che la solidarietà affettiva offerta da coloro che sono vicini al nucleo familiare viene utilizzata per ri-investire legami che in passato avevano lasciato insoddisfatti. Nasce la comprensibile aspettativa che in presenza di una così grande sventura sarà possibile ricevere quella gratificazione affettiva, prima sospirata invano. Speranze abbandonate, aspettative affettive deluse, ritornano in campo, poiché inconsciamente ognuno sente che la tragedia rende ottenibile ciò che prima, in condizioni normali, era stato negato.

CONVIVERE CON UN FRATELLO DISABILE


Molto importante è la posizione in cui vengono a trovarsi i fratelli sani, che più di tutti risentono della modalità utilizzata dalla famiglia per fronteggiare l’angoscia del trauma. Il comportamento dei genitori costituisce, infatti, un potente segnale per i figli i quali spesso vi si adeguano, adottandolo come un codice di riferimento. L’iperprotettività dei genitori verso il disabile, per esempio, sarà assunta come norma dagli altri figli i quali si sentiranno in dovere di provvedere al fratello in modo da inibire ogni suo sforzo di autonomia. Per contro atteggiamenti di rifiuto e di emarginazione del disabile autorizzeranno i fratelli ad allontanarsi da lui.
Di norma nella famiglia “normale” la scala valoriale assunta dai figli, sul modello proposto dagli adulti, è solitamente improntata sulla protezione, definendo così due ruoli:
-         Quelli che proteggono: gli adulti e i figli maggiori (anche se hanno sei anni)
-         Quelli che ricevono protezione: figli minori e disabili (indipendentemente dalla sua età cronologica).
Agli occhi dei genitori il figlio disabile è per definizione non autonomo: il suo effettivo bisogno di aiuto in alcuni settori si allarga spesso a macchia d’olio, così che il più delle volte il soggetto viene considerato disabile in tutto e per tutto. Per contro gli altri figli ricevono prematuramente la patente di autonomi, di “grandi”, “di quelli che ragionano”, assai prima di meritarla, o di averla desiderata, o di essere in grado di utilizzarla con profitto.
I figli possono essere interlocutori gratificanti dei genitori, dando loro una diversa visione del futuro; se maggiori del bambino compromesso, possono essere di appoggio e di aiuto nel crescerlo. I fratelli sani stimolano il fratelli disabili, distolgono l’attenzione angosciosa dai suoi problemi imponendo le proprie, più gratificanti, esigenze di crescita; danno soddisfazioni ripagando gli sforzi educativi dei genitori e compensandoli delle delusioni che ricevono dal fratello compromesso.
I fratelli sani possono essere gelosi delle eccessive attenzioni che il disabile riceve e dare a propria volta preoccupazioni con comportamenti inaccettabili.
Essi possono sentire le richieste dei genitori come eccessive e rifiutarsi di soddisfarle. Tuttavia se la compromissione del figlio disabile è seria, inevitabilmente ai fratelli sani viene fatto carico di funzioni genitoriali sostitutive che con il procedere della crescita, possono indurre in loro un grave vissuto depressivo. Portare la responsabilità di un soggetto compromesso, già pesante per un adulto, funziona da inibitore per un ragazzo in evoluzione che dovrebbe concentrare tutte le sue forze nell’espandere se stesso e proiettarsi nel futuro.
Purtroppo l’età dei genitori che avanza e la fatica di lasciar emancipare proprio quei figli da cui si sono ricevute gratificazioni rendono estremamente forte la tentazione di trattenerli, mettendo loro dinanzi il fratello bisognoso.
Considerando poi anche il caso fortunato in cui l’emancipazione dei figli sani proceda per il meglio ed essi si dedichino a costruire un proprio futuro autonomo, pesa comunque su di loro la consapevolezza di dover subentrare ai genitori nei compiti di assistenza quando questi per l’età, la malattia, o la morte non potessero più farvi fronte. Coloro che reagiscono a tale responsabilità con rifiuto o ribellione spesso si trascinano per tutta la vita un profondo senso di colpa; per contro la possibilità di riuscire a recuperare una vicinanza con il fratello disabile riuscendo a tollerare la propria impotenza di fronte alla sua sofferenza riuscirà in seguito ad attenuare il senso di colpa per le gelosie, le piccole mancanze vissute nei suoi confronti in passato ed in ultima analisi di essere sani.


Centro di Psicoterapia Familiare

COMUNICAZIONE IN TERAPIA


La genesi della CNV


“(…) Insomma, stavo capendo, in un esercizio continuo, che la Comunicazione è una questione di tatto, ed ero molto felice di sentire che la mia mamma vedeva dall’esterno le mie risposte sotto forma di movimenti ai quali cominciava ad attribuire significato. Non stavamo mai in silenzio, ci mandavamo messaggi continui con il linguaggio dei sapori, degli odori, del tono muscolare (…). Riuscivo a mandarle addirittura i desideri così come lei, persino nel sonno, mi mandava straordinarie immagini di un mondo ancora sconosciuto. Ero proprio in un castello incantato, in cui non facevo in tempo a desiderare perché tutto era esaudito (…).
Il corpo racconta… Stefania Guerra Lisi

L’unica forma di comunicazione di ogni bambino nei primi due anni di vita è quella non verbale. Attraverso i gesti e la mimica lui si rapporta con la sua figura di riferimento e con il mondo esterno esprimendo manifestazioni affettive e richieste di soddisfacimento dei suoi bisogni. Queste prime interazioni con l’ambiente circostante, già dalla vita prenatale, sono il fondamento delle modalità di apprendimento futuro di ogni bambino. La “corporeità della mente” è dovuta alle immagini sensoriali, conservate in quella che viene chiamata memoria procedurale, che ne determinano la soggettiva reattività rispetto all’ambiente circostante.  Una memoria che include il rapporto complessivo di azioni quotidiane, di affettività e di aspettative che il bambino si crea. Ciò si traduce in un senso di azione e reazione che va oltre la semplice analisi dei cinque sensi.
Per percepire il proprio corpo è necessario tenere presente il suo confine anche se sentirsi accolti nel proprio ambiente, sentire i propri messaggi compresi e accettati fa sì che l’atteggiamento di apertura sia sempre maggiore verso di esso. Nelle situazioni di rifiuto o disconferma da parte dell’ambiente circostante ogni essere vivente si pone in posizione di chiusura o di cattiva ricettività, e di conseguenza inadeguata reattività agli stimoli esterni. Pertanto può venir attuato un tentativo di non comunicazione attraverso il silenzio o una modalità di espressione distorta, ma come sappiamo questo tentativo è di già per sé  comunicazione e quindi può essere compreso, come qualsiasi altro atteggiamento di chiusura.

·        La CNV nella terapia relazionale

In un contesto terapeutico il linguaggio del corpo costituisce uno degli elementi più importanti dell’analisi della comunicazione del sistema famiglia e contribuisce a determinarne il contesto.
È impossibile nella vita quotidiana distinguere i vari livelli di comunicazione in quanto si intersecano continuamente influenzandosi a vicenda. Pertanto non è semplice determinare una gerarchia dei modi di comunicare, se il modo verbale comporta l’informazione intenzionale esplicita, altri modi assicurano altrettante necessarie funzioni per lo svolgimento dell’interazione e per la trasmissione delle conoscenze.
Nel linguaggio corrente una persona molto comunicativa è una persona la cui espressione verbale è arricchita da una notevole espressività corporea.
La riscoperta del corpo, della sua funzione comunicativa e il ruolo indispensabile che ha nell’apprendimento sono necessità nel processo di osservazione dell’altro e dei linguaggi legati ai canali sensoriali attraverso cui essi si esprimono.
Nell’ottica sistemica incontrare una famiglia o un singolo paziente significa valutare tutta una serie di informazioni che derivano innanzitutto dalla conoscenza della loro storia, quindi i fatti più importanti della vita delle persone coinvolte nell’intervento terapeutico, ma anche dall’osservazione del qui ed ora, ossia da come la famiglia si rapporta sia al suo interno che con il professionista che si confronta con lei.
Un dato importante da tenere presente è il fatto che qualsiasi terapia ha inizio con il primo contatto telefonico in cui oltre allo stabilire tutta una serie fattori pratici quali ad esempio orario e luogo dell’appuntamento, è possibile osservare ed annotare un gran numero di fenomeni: peculiarità della comunicazione, tono della voce, richieste di ogni genere di informazioni o addirittura tentativi immediati di manipolazione che a volte possono operare quasi verso una inversione dei ruoli tra famiglia e terapeuta.
Un terapeuta familiare può trovarsi di fronte a sterili dati di fatto che lo legano al contesto in cui avviene il colloquio, ma deve integrare il tutto con un’osservazione selettiva atta a ricercare un metodo che gli permetta di superare i vari livelli di complessità nella comprensione del rapporto terapeutico. Ci saranno terapeuti più portati a concentrarsi sull’espressione verbale del paziente, altri che invece nella loro formazione hanno scoperto una maggiore propensione verso l’osservazione dei segnali del corpo; il lavoro dell’équipe è fondamentale a tal proposito. Uno strumento affidabile che registra l’interazione che sta avvenendo al di là del vetro sotto ogni punto di vista e la somma a quelle che sono le rilevazioni relazionali fatte dal terapeuta stesso. Ad esempio nel post – seduta il terapeuta può esplicitare una certa sensazione che ha avuto durante la seduta la quale può essere confermata o smentita dai colleghi, incaricati della supervisione, che hanno la possibilità di cogliere sequenze mimiche particolari in  corrispondenza di specifici scambi interattivi del sistema terapeutico, oppure attraverso l’analisi della videoregistrazione della seduta.
L’analisi della comunicazione non verbale diventa quindi essenziale per la comprensione del significato di ciò che accade nelle interazioni familiari e nell’evoluzione del rapporto terapeutico e del sistema terapeutico.

·        La CNV nella pratica clinica

Il problema centrale di ogni relazione, anche terapeutica, è che cosa si comunica e come si comunica. Sia per il linguaggio verbale che per quello non verbale si può asserire che l’assenza di determinate componenti, siano esse espressive o gestuali, causa incomprensione e fraintendimenti dei concetti che una persona sta esprimendo. Lo stesso vale per la modulazione e la sintassi dei discorsi argomentati che attraverso l’intensità e le sfumature dei vari contenuti, influiscono sul significato complessivo della comunicazione, quindi sul come si sta comunicando.
In ambito clinico la relazione che si viene a creare è tra due persone che trovano un accordo sulla modalità di comunicare e l’interpretazione dell’esperto diventa man mano più attenta e ricettiva quanto più lui stesso si sente di condividere i significati e le emozioni della persona che ha di fronte in una sorta di risonanza. Ogni percezione è selettiva onde evitare una disorganizzazione derivante dall’enorme massa di stimoli che arrivano ai sensi. Un’attenzione selettiva o troppo bassa o troppo diffusa può portare all’impossibilità di dare coerenza e il giusto significato a quanto si osserva nell’altro.
A livello individuale il linguaggio del corpo è composto in parte da una mimica che rappresenta soltanto la storia del soggetto in questione; il modo in cui l’individuo si presenta ed entra in relazione va percepito e condiviso al fine di entrare in sintonia con il suo modo di comunicare con noi. Il focus dell’attenzione del terapeuta è sulla mimica che per alcuni può essere molto vivace mentre per altri può essere povera, se non del tutto soggetta a un rigido controllo. La capacità di manifestare le emozioni dice molto sulla persona che si ha di fronte, e la mancanza di una certa espressività facciale o corporea non deve trarre in inganno facendo pensare che questa non è capace di provare emozioni; in una prima analisi è sempre bene ipotizzare che chi sta di fronte non  riesce a manifestarle, andando a ricercare la causa di un tale comportamento anche all’interno delle abitudini familiari.
A livello relazionale, ossia quando sono coinvolte più persone su un piano intrasistemico, il linguaggio del corpo diventa espressione di sentimenti che non hanno solo origine all’interno del singolo individuo, ma che si arricchiscono dell’interazione con gli altri in un contesto in cui gli stimoli esterni variano di continuo. Inoltre compare anche una nuova componente ad influenzare il tipo di espressione dei propri vissuti che è il fine che ci si propone di ottenere. La risposta a sua volta modulerà nuovamente l’espressione accentuandola o inibendola, in una dinamica circolare tipica dell’interazione sistemica.
Rimane da accennare a quella particolare forma di comunicazione non verbale rappresentata dai sincronismi osservabili in terapia tra tutte le persone presenti.  Si tratta di movimenti del corpo accompagnati da espressioni mimiche che si verificano contemporaneamente in diversi momenti della seduta e sembrano contraddistinguere specifiche sequenze interattive. In genere si riscontrano in momenti in cui vengono trattati argomenti di particolare rilevanza emotiva, una sorta di codice comunicativo che si è andato creando nel sistema terapeutico.
Un altro elemento fondamentale è dove si colloca lo psicologo relazionale. La distanza fisica dal punto in cui convergono le informazioni della famiglia indica il coinvolgimento psicologico: in una posizione troppo ravvicinata rischia di farsi coinvolgere troppo e di assorbire tutto ciò che viene portato dal cliente; ad una giusta distanza invece, può ricollegare le informazioni in una nuova dimensione spazio-temporale. Il terapeuta deve sintonizzarsi con il sistema emotivo familiare, per poi distaccarsene, ridefinendo il significato emotivo stesso, in una cornice più allargata nella quale vengono inclusi i diversi livelli generazionali. 

Dott.ssa  Ivana Siena
 VEDI ANCHE: COMUNICANDO  e  CNV

giovedì 21 febbraio 2013

COMUNICAZIONE NON VERBALE


 Elementi di comunicazione non verbale

Quanto tempo si impiega, ad un primo incontro, a deci­dere se una persona ci è simpatica o antipatica? In tutta sincerità si può ammettere che, di solito, il verdetto viene emesso nel giro di pochi secondi. Inoltre molte persone trovano difficoltà nel ricordare il nome dell’altro appena conosciuto.
Nei primi istanti di un rapporto si è maggiormente oc­cupati ad os­servare altre cose; i sensi si attivano in ogni direzione tanto da notare, stringendo la mano al nuovo interlocutore, se ha una mano calda o fredda, se è sudata, se la sua stretta trasmette sicurezza. Ecco perché ci è difficile ricor­dare il suo nome.
La prima impressione su una persona appena conosciuta è quasi sempre sbagliata; qualche volta i sensi e le percezioni ingannano, o meglio, svolgono un ruolo che è loro proprio: un primo sondaggio della realtà sulla scorta di dati meramente emotivi. Qualsiasi approfondimento, qualsiasi dimensione di analisi viene ri­mandata ad un secondo momento dove la mente è chiamata a svolgere compiti qualitativamente più complessi e imposta processi razionali di critica sui giudizi emotivi, di confronto, associazioni e memoria.
E' anche vero che quel primo giudizio, quelle percezioni iniziali, non solo hanno pesato enormemente sull'impostazione della relazione, ma continuano ad in­fluire anche nel proseguo del rapporto: la mente umana è fatta in modo tale da andare a cercare quasi sempre  le conferme a quanto i nostri sensi hanno percepito! E' molto più faticoso il processo di revisione e/o disconferma di quelle sensazioni iniziali.
L'impatto del con­te­nuto sulla comunicazione (almeno nei primi momenti del rapporto) è assolutamente trascurabile. Questo può signifi­care che, in comunicazione, esistono delle situazioni nelle quali la forma ha un potere di impatto assai superiore al contenuto. Pertanto si può ammettere che :
Come diciamo le cose è più importante di ciò che diciamo.
La comunicazione verbale (C.V.) serve a scambiare in­for­mazioni sugli oggetti e a trasmettere la conoscenza; ma nel settore della relazione la comunicazione non verbale (C.N.V.)  ha un peso non trascurabile, anzi spesso determinante.
Ogni volta che la relazione è il problema centrale della comunicazione, la comunicazione verbale è pressoché priva di significato.
La C.N.V. è una forma di comunicazione immediata; viene dal profondo, spesso è assolutamente inconscia e proprio per questo è facile dichiarare qualcosa verbalmente ma è difficile sostenere una bugia con il corpo.
D'altra parte di deve anche notare che la C.V. ha un grado di com­ples­sità e precisione maggiore della C.N.V. Sarebbe infatti im­possibile la trasmissione di concetti astratti e complessi senza ricorrere al linguaggio verbale (o numerico), alla ver­satilità della parola; di contro, il lin­guaggio non verbale (o analogico) è assai più ambiguo e impreciso e assoluta­mente inadatto per la trasmissione di messaggi complessi.
  
1.  La Postura
La posizione del corpo che il soggetto assume durante un colloquio è altamente indicativa del proprio atteggiamento interiore. Le sensazione , le impressioni o semplicemente ciò che si vuole esprimere in un determinato evento sociale può essere celato dalle parole ma non dal proprio corpo. Qualsiasi movimento improvviso del corpo riflette sempre un cambiamento dell’atteggiamento interiore, soprattutto quando si sposta di colpo il peso corporeo.
Ciò che si è e si pensa, quindi, viene espresso attraverso il corpo e la congruenza tra il linguaggio verbale e quello corporeo riflette una coerenza mentale.
Un atteggiamento corporeo rilassato produrrà nell’altro una sensazione positiva evitando un impatto negativo.
Il significato delle singole posture non è identico per tutti; ogni persona ha un proprio codice altamente soggettivo determinato dall’esperienza personale, dalla cultura di appartenenza e dall’educazione ricevuta ed è probabile che una persona ripete la medesima postura quando gli si presenta la stessa emozione.

2.  La Gestualità
Un’altra dimensione della C.N.V. è caratterizzata dai gesti. Non tutti sono significativi, ma considerati globalmente costituiscono un messaggio rilevante.
Se parlando con un interlocutore gli si dice di essere tranquillo e rilassato con espressione accigliata e muovendo ritmicamente i piedi da seduti, il messaggio  risulterà incongruente.
Si può generalizzare sul significato dei vari gesti, ma questi, presi singolarmente, possono non voler dir niente, ma vanno interpretati insieme ad altri indicatori come la postura, la prossemica, le espressioni e nel contesto in cui si svolge l’azione.
La cosa che sembra importante sottolineare è che non solo il singolo gesto non è indicativo dell’atteggiamento della persona, ma il significato di un gesto cambia nelle diverse culture.
Ad esempio una donna asiatica tende a non guardare mai negli occhi quando parla con un superiore, soprattutto se si tratta di un uomo, perché è stata educata in tal modo. Diversamente una donna bianca è stata abituata fin dall’infanzia a parlare guardando sempre negli occhi l’altro.
Ancora, nella cultura occidentale appoggiare la gamba sul ginocchio  indica che il nostro interlocutore è decisamente rilassato.  In Medio Oriente tale gesto può essere giudicato offensivo; in Giappone, ad esempio, verrebbe considerato alquanto maleducato, l’accavallamento delle gambe in qualunque sua forma è infatti molto raro.
Questo ci dimostra che, se i gesti non vengono contestualizzati, si corre il rischio di darne una interpretazione semplicistica od errata.

3.  La Prossemica
Anche il comportamento legato alla dimensione “spaziale” (Prossemica) influenza in maniera significativa il processo comunicativo.
L’ampiezza della zona intima dipende fondamentalmente da due fattori: il proprio stato d’animo (o sicurezza) e lo “status” dell’interlocutore.
Quanto più è elevato lo status di una persona, tanto maggiore è l’ampiezza della zona intima che gli altri le riconoscono.
E’ naturale che ogni persona tende a rivendicare il proprio “territorio”; infatti, se due  persone si trovano a condividere lo stesso tavolo, ciascuna ne considera la metà come parte della sua zona intima.
E’ possibile riscontrare alcune eccezioni derivanti dalla timidezza e dal differente status dei due interlocutori.
C’è, generalmente, un rapporto diretto tra il non rispetto della zona di spazio fisico di un altro e lo stargli troppo addosso in senso figurato.
I segnali di distanziamento possono indicare il desiderio di avere più spazio libero sia in senso fisico che psicologico.

4.  Le Espressioni


L’insieme dei lineamenti facciali, del contatto oculare, della direzione dello sguardo e dei processi psicosomatici (come ad esempio l’impallidire) sono ritenuti aspetti rilevanti ed anch’essi della C.N.V.
Il volto, per la ricchezza della sua muscolatura, è la parte del corpo che più di tutte veicola messaggi non verbali con una grande varietà di sfumature. L’importanza espressiva prevalente attribuita la volto porta a trascurare durante la conversazione l’osservazione delle altre parti del corpo che hanno invece una notevole importanza ai fini della comunicazione.
Ogni singola persona ha delle espressioni tipiche e strettamente soggettive, di conseguenza solo una conoscenza approfondita dell’altro ci permetterà di attribuire un significato univoco alle espressioni.
Anche in questo caso l’aspetto sul quale focalizzare l’attenzione è la congruenza o meno tra i segnali emessi dal volto e ciò che dice l’interlocutore. A volte basta un impercettibile a sorriso a farci capire che l’altro pur dicendo di essere arrabbiato sta solamente scherzando.
Ma cosa sono le espressioni ? 
Le espressioni del viso sono il risultato di micromovimenti provenienti da:
1.    Regione frontale
2.    Regione mediana
3.    Regione del mento e della bocca
Le espressioni della regione frontale, sede di processi mentali e analitici come il pensiero, la comprensione, l’analisi e la concentrazione sono principalmente pieghe orizzontali e verticali.
Le prime indicano che l’attenzione è interamente assorbita da qualcosa.
Molto spesso questo tipo di espressione è accompagnato da altre espressioni come l’apertura della bocca o il chiudere leggermente gli occhi che stanno ad indicare rispettivamente un atteggiamento di attesa o di sorpresa, nel primo caso, e lo sforzo di capire nel secondo caso. Altre interpretazioni che vengono date a questo tipo di espressione sono il dubbio, la confusione e la paura.
Più specificamente, le pieghe verticali  indicano che l’attenzione è concentrata intensamente su qualcosa (o su qualcuno).
La regione mediana è rappresentata dagli occhi che, oltre ad essere i principali strumenti di raccolta di informazioni esterne, riflettono la nostra condizione interiore.
La stessa direzione dello sguardo può fornire informazioni sullo stile adottato dalla persona nel percepire e nel pensare.

5. La prosodia
Un altro aspetto che caratterizza la C.N.V. sono gli elementi prosodici, ossia il tono della voce il ritmo e le pause.
Il tono di una comunicazione non è semplicemente il tono di voce di chi parla (melodica o timbrica); ma l’intera costruzione della frase (interrogativa, esplorativa, imperativa..).

Il tono della voce è lo specchio del nostro stato d’animo, veicolo dell’espressione delle emozioni le quali si correlano con l’affettività di un individuo.  Si può cogliere l’emotività come una totalità affettiva o come un insieme di più sfumature tonali, quali risultano all’osservatore esterno o al soggetto che si autopercepisce.

Il ritmo deve essere “in linea” con il contesto comunicativo e di solito è meglio renderlo vario per richiamare l’attenzione o a seconda della situazione.
Le pause sono indispensabili: danno il tempo di pensare e di riflettere. Sono un segnale di rispetto per l’altro, servono a sottolineare, richiamano l’attenzione.

dott.ssa Ivana Siena

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lunedì 18 febbraio 2013

COMUNICANDO

La comunicazione interpersonale



  
Comunicare: Far partecipe, rendere comune ad altri, di­videre in­sieme, rendere noto, palesare, conversare, manife­stare, far comune i propri sentimenti e pensieri, aver con­tatto, relazione...
N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana


L'azione del comunicare" non è un'azione semplice ma più esattamente un "processo di azioni" diverse e cor­re­late fra di loro. Non si tratta infatti solo di "rendere noto" qualcosa a qualcuno, ma anche di "aver contatto, rela­zione" con questo qualcuno.
Da un punto di vista meccanico si può asserire che la comunicazione sia una trasmissione di informazioni/messaggi, attraverso un codice prestabilito, utilizzando un canale condiviso.


Questo è dunque lo schema di base di ogni forma di comunicazione. Emittente e ricevente sono i soggetti del processo comunicativo. Il messaggio è l'oggetto dello stesso processo ed è co­stituito da un insieme di informa­zioni di base (parole, im­magini) che strutturate in un certo modo (codice) formano i contenuti della comunicazione.

Il codice svolge il ruolo di sintonizzatore tra emittente e rice­vente: solo se entrambi i soggetti del processo di comuni­cazione sono a conoscenza del codice usato si rende pos­sibile la decodifica del messaggio, quindi la realizzazione di un processo comunicativo completo. Ogni disciplina, ogni scienza, ogni cultura specifica ha un proprio co­dice.

Quando parliamo di canale intendiamo il mezzo at­tra­verso il quale inviamo il messaggio strutturato; per esem­pio, quando parliamo con qualcuno comunichiamo il no­stro messaggio strutturato nel codice "lingua italiana" at­traverso il canale delle onde sonore.
Sappiamo anche che la migliore comprensione del mes­saggio si ottiene quando la comunicazione si avvale di più canali in contemporanea (per esempio la televisione: ca­nale delle onde sonore e canale visivo).

Un elemento di fondamentale importanza nei processi di comunicazione è il feedback, cioè il "nutrimento di ri­torno" o il "rinforzo". Quando nell'analisi di un processo di comunicazione si prende in considerazione il feedback si esce dalla schema di base esposto in precedenza e si giunge a definire una dimensione circolare, dove non si è mai solo emittenti o riceventi, ma entrambi i soggetti contemporaneamente.
In effetti quando parliamo con qualcuno inviamo al no­stro interlocutore una serie di stimoli (fisici e psichici) che provocano in lui una serie di reazioni (movimenti del corpo, espressioni del viso, richieste verbali, silenzi) che a loro volta si trasformano in ulteriori stimoli per noi, indu­cendoci a nuove reazioni e così via...


La comunicazione è importante in quanto fornisce un portale per le persone a essere in grado di esprimere i loro sentimenti o inviare messaggi considerando differenze di tempo, distanza o spazio.
Essere in grado di comunicare con la gente fa le cose più facili. Questo è valido per quasi tutti i campi. È infatti necessaria per mantenere le cose organizzate e allineati. Sotto l'aspetto personale, la comunicazione viene utilizzato per esprimere una varietà di sentimenti e pensieri.

I principi fondamentali della comunicazione

1)  Non si può non comunicare. Tutto è comunicazione
Pensiamo alla sala d’aspetto di uno studio medico. Entriamo e cerchiamo lo sguardo degli altri per accennare un saluto. Qualcuno sta leggendo, solleva gli occhi per un attimo e poi riprende a leggere. Non vuole comunicare con noi. Nondimeno ci ha comunicato la sua intenzione di non voler comunicare.
Non solo la presenza ma anche l’assenza di qualcuno ci comunica qualcosa.
Tutto comunica: le sedie disposte in un certo modo, la pulizia o meno di un ambiente, la scelta di un luogo rispetto ad un altro, persino il silenzio, paradossalmente comunica qualcosa.

2)  Il significato di una comunicazione è nella risposta che si riceve
In questa definizione risulta centrale il feedback, cioè l’informazione di ritorno. Spesso siamo troppo concentrati su ciò che dobbiamo dire (il contenuto, le informazioni, gli insegnamenti) piuttosto che fare attenzione anche e soprattutto ai messaggi diretti o indiretti che i nostri interlocutori continuamente ci inviano (segnali di stanchezza, indifferenza, segnali di richiesta attenzione, affetto, coinvolgimento, aiuto….).
Assumersi la responsabilità del risultato della propria comunicazione significa fare tesoro delle informazioni di ritorno e cioè del feedback. Se non riesco a trasferire un contenuto, è la mia comunicazione che va cambiata, non è il ricevente che non ha capito.

3)  In ogni comunicazione esiste un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione

Il contenuto è ciò che si comunica, il messaggio che si trasmette ed è percepito a livello consapevole. La relazione  definisce il tipo di rapporto che esiste tra le persone ed è spesso percepita a livello inconsapevole. Non trasmetto solo un messaggio ma instauro anche una relazione.
Al centro non c’è il contenuto da far passare ma la persona che ho di fronte. Perché la mia comunicazione sia efficace è indispensabile conoscere i nostri interlocutori, capire le loro attese, bisogni, desideri, inviare continuamente segnali di relazione.


Dott.ssa I. Siena

VIOLINO TZIGANO





PER GLI AMICI ABRUZZESI: QUESTA SERA IN REPLICA ALLE ORE 23:00 SU TVQ LA MIA PARTECIPAZIONE ALLA TRASMISSIONE TELEVISIVA VIOLINO TZIGANO CONDOTTA DA GIANNI LUSSOSO, CHE RINGRAZIO CALOROSAMENTE PER L’ACCOGLIENZA

sabato 16 febbraio 2013

CICLO VITALE


Finché morte non ci separi


L'articolo 16 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo afferma: “Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all'atto del suo scioglimento”



Ma cosa c’è dietro la parola matrimonio? Etimologicamente deriva dal latino matrimonium, ossia dall'unione di due parole latine, mater, madre, genitrice e munus, compito, dovere; il matrimonium era nel diritto romano un "compito della madre", intendendosi il matrimonio come un legame che rendeva legittimi i figli nati dalla unione. Analogamente la parola patrimonium indicava il "compito del padre" di provvedere al sostentamento della famiglia.
Da un punto di vista relazionale il matrimonio indica però una fase del ciclo vitale molto delicata, la separazione fisica da un ambiente che fino a quel momento è stato l’unico più familiare, il distacco da abitudini, la differenziazione dalla famiglia d’origine, tutti gradini fondamentali per passare al piano successivo di questo palazzo chiamato famiglia. Ogni individuo infatti, progressivamente si crea un proprio spazio personale e cerca di accrescerlo sperimentando nuovi modi di mettersi in relazione con l’altro, in questo caso il partner scelto. Il rischio in questa fase è di un blocco, o di un passaggio incompleto, ossia apparentemente si passa alla fase successiva di relazione pur non modificando le relazioni interpersonali con la famiglia d’origine e le modalità di funzionamento del sistema familiare precedente. Non è raro che ci si sposi pur non essendosi differenziati totalmente dalla famiglia d’origine. Ciò non vuol dire che deve esserci un rifiuto del precedente stile familiare acquisito, al contrario, differenziarsi significa acquisirlo, farlo proprio, mantenendo una giusta flessibilità nel modellarlo in base alle esigenze personali e del nuovo nucleo che con il matrimonio si sta formando.
I due individui diventano coppia, ciò significa che devono essere state acquisite da entrambe le parti una serie di competenze affettive, sociali, cognitive che permettano di stabilire legami stabili.
Spesso attraverso il matrimonio si ricerca un riconoscimento sociale che contribuisce a sentirsi parte di questo nuovo sistema a due che si sta formando. Le motivazioni che portano all'ufficializzazione formale di una relazione sono di vario genere, e solitamente non sono uniche: motivazioni sentimentali o sessuali che necessitano di un'approvazione sociale o religiosa, motivazioni economiche, patrimoniali o politiche che invece richiedono una legittimazione giuridica e quant'altro.
In realtà la tendenza ad ufficializzare riflette il tramandarsi di miti familiari, di mandati che vengono acquisiti inconsapevolmente da ognuno dei partner e che fungono da corollario di regole implicite che vanno discusse e ridefinite nel tempo. Le difficoltà più grandi di questa fase, come l’assestamento e la paura che non sia “per sempre”, trovano soluzione attraverso la ricerca del “tempo della coppia” che non sia semplicemente una sincronizzazione degli orologi, ma un tempo interno della coppia nel quale i partner si organizzano i rispettivi compiti di sviluppo.
Il matrimonio è stato tradizionalmente un prerequisito per creare una famiglia, che solitamente costituisce un mattone costruttivo di una comunità o società. Perciò, non solo serve gli interessi di due individui, ma anche gli interessi dei loro figli e della società di cui fanno parte. Oggi, più che in passato, può essere frutto di una vera scelta reciproca visto che è finalmente libero da costrizioni e finti idealismi.

Dott.ssa Ivana Siena

venerdì 15 febbraio 2013

SESSUALITA' IV PARTE


Concludendo


La sessualità femminile dipende da vari elementi e non è uniforme in quanto gli impulsi sessuali sono espressione dello stile di vita, frutto della capacità creativa individuale. Ciò che ne deriva è che oltre ai fattori fisici, quindi, esistono altri fattori che influenzano l’atteggiamento della donna nei confronti della sessualità come l’atteggiamento della cultura, l’influenza dell’uomo dovuta al suo corteggiamento attivo, alla sua stabilità economica e alla sua migliore istruzione. Fin dall’infanzia la cultura influenza le pulsioni sessuali, come tutte le altre pulsioni, che vengono inibite o sviluppate a seconda delle esperienze vissute dall’individuo. Perciò se l’educazione della bambina conduce a un atteggiamento passivo nei confronti della vita in generale, allora anche il suo comportamento sessuale sarà passivo. In generale si può dire che l’educazione delle ragazze mira perciò ad adeguarsi a questi fattori sopra citati per quanto riguarda il problema dell’amore.
La spiegazione delle varie caratteristiche della sessualità femminile, di come si sviluppa e dei possibili disturbi, rimanda a dei chiari legami con la protesta virile trattata in precedenza.
Oggi l’espressione delle sensazioni, del proprio essere e della sessualità stessa sono alla portata di tutti, senza distinzioni di classi socio-economiche nonostante il fattore culturale le influenzi tutt'ora.
Questo permette il trattamento di specifiche problematiche femminili alla pari di ogni altro disturbo fisico o psicologico che sia, con il conseguente miglioramento delle relazioni interpersonali, fondamentale per una qualità di vita sempre migliore.

Il motore per la gratificazione di tutte le azioni

 Il sistema dopaminergico centrale è quella parte del cervello, situata alla base dello stesso, nella parte dell'istinto e neurovegetativa, deputata alla percezione del piacere ed alla memoria di esso, nel senso che ciò che ci piace ci fa anche fremere dal desiderio di realizzare ancora l’esperienza piacevole!

Il neurone che trasmette la sensazione del piacere è come una specie di filo elettrico che termina con una specie di bottone; a livello del bottone esiste uno spazio detto intersinaptico, (significa spazio tra l’unione dal greco inter e sinapto), dove il primo neurone libera la dopamina; ebbene la sostanza esplica l’azione che è quella di dare la “sensazione di piacere”, ma poi viene degradata, poiché esiste un altro recettore, cioè un sito di regolazione che “capisce” quanta dopamina è stata liberata e dice “stop”, basta liberazione di sostanza. Ebbene, si è visto che bloccando il recettore D2, si ottiene ancora la dismissione di sostanza e la trasmissione del piacere si incrementa! Su questo principio si basa la cura della depressione, che consiste nel bloccare il recettore D2 e fare liberare quanta più sostanza del piacere è possibile, per risollevare il tono dell’umore in modo farmacologico, almeno!
Numerose evidenze sperimentali nel ratto suggeriscono che il desiderio, la motivazione ad agire per ottenere una ricompensa e il piacere (ovvero l’euforia) che ne consegue sono direttamente associati a un aumento dei livelli extracellulari di dopamina nel sistema mesolimbico.
Nell’animale da esperimento ciò accade sia per il cibo, sia per la gratificazione a seguito di assunzione di droghe (per esempio cocaina, alcool, eroina ecc), sia per stimoli sessuali. Lesioni che distruggono i neuroni dopaminergici o impediscono la trasmissione dopaminergica mediata dai recettori D1 e D2 nell’accumbens sopprimono  l’auto somministrazione di cocaina. Estendendo il concetto all’adulto, esistono dei soggetti depressi che, pur di gratificarsi, fanno cose strane, come avere più relazioni con le donne o giocare d’azzardo!

Trattamento e terapia

L'intervento psicologico è attualmente uno degli interventi più efficaci per la maggior parte delle disfunzioni sessuali femminili e anche per quelle maschili indicate. La disfunzione sessuale viene vista come l'indicazione da parte dell'organismo di un problema di organizzazione del sistema in cui si evidenzia il problema. L'intervento psicologico, è quindi teso alla riorganizzazione funzionale del sistema ovvero a ciò che si può definire “armonizzazione”. E' un intervento in genere di tipo breve e che può prendere in considerazione sia soltanto il “portatore del sintomo” sia il sistema sessuale (es. la coppia).
Come per quasi tutti i disturbi sessuali è utile la tecnica della Focalizzazione Sensoriale e naturalmente portare i partner a migliorare la propria comunicazione e l'intimità.
Nei casi più resistenti può essere utile fare ricorso a farmaci (vasodilatatori o antidepressivi) od ormoni (estrogeni, ossitocina o testosterone).
È importante che entrambi i partner siano presenti alle sedute e diano la loro "spiegazione" su quello che sta loro accadendo.
Solitamente sono necessarie una serie di analisi clinico-chimiche preliminari, per escludere patologie di natura organica sia meccanica (per esempio nei casi di problemi d'erezione, che ormonale) ed una lista completa dei farmaci assunti. Nel caso in cui sia l'assunzione di determinate medicine a determinare la sindrome sessuale, può ritenersi utile una collaborazione con il professionista cui si deve tale prescrizione.
È importante comprendere gli atteggiamenti e l'educazione impartita in famiglia rispetto alle varie sfaccettature della sessualità, come le modalità di comunicazione, gli insegnamenti relativi alla nudità in casa, all'attività sessuale prematrimoniale, alla masturbazione,  all'omosessualità, eccetera. Spesso queste nozioni possono diventare veri e propri muri che impediscono alla persona di vivere serenamene la propria sessualità, spesso anche senza una vera e propria cognizione di causa, perché l'educazione diventa poi parte di un bagaglio personale, che pare non avere più un'origine precisa.
Si può chiedere come sono state acquisite le principali conoscenze relative alla sessualità e alla riproduzione (compresi i cambiamenti che intercorrono alla pubertà, mestruo, polluzioni notturne) e di riproporre in prima persona una breve spiegazione, perché può  capitare che alla base di un disturbo vi sia una comprensione erronea di alcune nozioni, dalle credenze sulla fecondazione all'assunzione dell'importanza di alcune posizioni sessuali.
Talvolta può essere utile comprendere meglio le convinzioni di tipo religioso rispetto agli atteggiamenti sulla sessualità (masturbazione, petting, rapporti prematrimoniali, aborto, contraccezione, eccetera)  al fine di individuare se certi convincimenti interferiscano o meno con una soddisfacente vita sessuale ed eventualmente conciliarli
Non è infrequente che alcune difficoltà nascano da convinzioni circa alcuni aspetti della sessualità, come la distinzione dei ruoli sessuali nel prendere l'iniziativa; l'importanza attribuita alle dimensioni del pene rispetto alla capacità di indurre piacere nella donna; la convinzione (errata) secondo cui una volta che un uomo ha l'erezione, questa si debba mantenere intatta per tutto il rapporto sessuale (altrimenti significa che ci sono problemi nell'uomo o che la donna non è sufficientemente eccitante per lui); la convinzione che l'orgasmo debba necessariamente avvenire nel corso del rapporto sessuale o comunque in seguito a penetrazione; atteggiamenti rispetto alle pratiche orali, anali, eccetera; convinzione (errata) che l'orgasmo simultaneo sia la forma migliore e "corretta" di soddisfazione sessuale.
È poi importante capire quale sia l'esperienza pregressa della persona, quindi si chiede, a volte attraverso sedute individuali dei due partner di raccontare la storia delle passate esperienze sessuali e/o sentimentali e della soddisfazione sessuale rispetto a queste; la storia dell'attuale legame sentimentale/sessuale e della soddisfazione sessuale passata e presente col partner attuale; le modalità di raggiungimento dell'orgasmo (posizione preferita, tipo di stimolazione, per la donna, soddisfazione per il numero degli orgasmi e sua relazione con le storie passate) ed infine l'eventuale insoddisfazione nel caso che nel rapporto sessuale non si riesca a raggiungere qualche volta l'orgasmo (si analizzano le reazioni sia nel caso che l'orgasmo non raggiunto sia il proprio o quello del partner).
Si chiede ad ognuno dei partner di valutare su scale da 0 a 10 la soddisfazione circa il rapporto sessuale, il raggiungimento dell'orgasmo, il gradimento della frequenza dei rapporti e così via.
Può capitare che la miglior conoscenza l'uno dell'altra sia di per sé terapeutica e che induca il partner a relazionarsi in modo da meglio predisporre l'altro.
Negli altri casi si tratta spesso di un disturbo vero e proprio, ma come tale, prevede anche uno specifico trattamento per superarlo.

 Dott.ssa Ivana Siena