sabato 30 marzo 2013

CICLO DI VITA DELLA FAMIGLIA


Sindrome del nido vuoto


La cosiddetta sindrome del nido vuoto è in realtà un momento di disagio individuale o di coppia che può verificarsi in corrispondenza con il momento del ciclo di vita della famiglia che corrisponde all’uscita di casa dei figli. I dati statistici riportano che questo momento è ritardato di quasi un decennio rispetto al passato, cioè l’uscita di casa dei figli, che vanno a vivere autonomamente con o senza un partner, si colloca nella maggior parte dei casi dopo i trent’anni. 
Si riferisce a sentimenti di depressione, ristezza, e/o dolore sperimentato dai genito nel momento in cui i figli iniziano a lasciare” la casa genitoriale. Questo talvolta può accadere quando i figli da bambini iniziano ad andare a scuola oppure, di solito quando raggiunta la maturità, decidono di andare via e sposarsi.
Le madri hanno maggiore probabilità di essere colpite rispetto ai padri, perchè spesso, il momento in cui il “nido” si svuota coincide per le donne con momenti altrettanto difficili e significativi della vita come ad esempio la menopausa o la cura dei genitori anziani, quindi lo stress è certamente più alto.
Fortunatamente la stragrande maggioranza delle madri oggigiorno lavora, pertanto, avverte in maniera meno forte il vuoto che i figli lasciano nell’andare via di casa.
Inoltre , un numero sempre crescente di giovani adulti tra 25 e 34 vive ancora in casa.
Psicologo Allan Scheinberg definisce questi ragazzi "figli boomerang" vuole a dire che seppur i genitori offrono loro la possibilità di abbandonare il nido familiare, a causa della limitata responsabilità appresa nell’infanzia e grazie ai privilegi che il restare in casa con i genitori offrono, quasi sempre questi ragazzi, esattamente come boomerang, dopo brevi sperimentazioni di
distanza tendono a rientrare in casa non appena incontrano le prime difficoltà.

Sintomi
Sentimenti di tristezza sono normali in questo momento. È anche normale trascorrere del tempo nella cameretta per sentirsi più vicini al proprio figlio, ma è fondamentale controllare le proprie reazioni e la loro durata. Se si sente che la propria vita è inutile, o se si piange continuamente o si è così angosciati fino al punto da non desiderare vedere amici o andare al lavoro, si dovrebbe considerare la possibilità di richiedere un aiuto professionale.


Cause
In genere le famiglie rendono possibile e facilitano il processo fisiologico di uscita di casa dei figli, mentre ciò può risultare problematico nelle cosiddette famiglie invischiate: per esempio se la presenza del figlio in casa è ciò che consente di eludere il conflitto tra i genitori allora l’abbandono del tetto da parte del figlio provocherebbe uno squilibrio che l’intera famiglia non sarebbe in grado di fronteggiare. In alcuni casi, come dice Haley, un esperto di dinamiche familiari, è il figlio stesso a sviluppare un qualche tipo di problema, ad esempio un comportamento sintomatico o un fallimento nell’inserimento professionale, tanto da renderlo necessariamente bisognoso della famiglia ed impossibilitato a separarsene.

Generalmente quello che viene consigliato alle coppie che restano nuovamente sole, come quando erano senza figli, è di re-investire energie emotive e fisiche nella relazione di coppia, se questa relazione funziona: quindi l’ideale sarebbe quello di crearsi dei nuovi interessi, dedicarsi ad attività che a causa delle necessità dei figli sono sempre state rinviate, come viaggiare, iscriversi ad un corso di ballo, riscoprire l’intimità e le relazioni amicali. E naturalmente rappresentare per i figli un punto di riferimento certo, seppur distinto.

Se la relazione di coppia invece è già da tempo problematica l’uscita di casa dei figli può funzionare da detonatore della conflittualità, poichè se restare uniti poteva essere sensato in presenza dei figli, anche se adulti, è facile che si possa andare incontro all’eventualità di una separazione nel momento in cui anche il figlio più piccolo ha lasciato il nido. In questo caso però incolpare l’indipendenza dei figli del fallimento della relazione è un meccanismo patologico e soprattutto improduttivo.
Per affrontare l’eventuale rinegoziazione della relazione coniugale può essere utile pensare di intraprendere una psicoterapia di coppia, mentre in caso di separazione si può decidere di affrontare lo stress di questo evento attraverso un aiuto individuale.
Recenti ricerche indicano che la qualità del rapporto genitore-figlio può vere importanti conseguenze in un momento così delicato come quello all’abbandono della casa genitoriale. Estreme ostilità, conflitti, o drastici distacchi nella relazione padre-figlio possono ridurre la sensazione di sostegno necessario per la maggior parte dei giovani durante la prima età adulta rendendo più doloroso e difficile l’abbandono ed acutizzando i sentimenti di colpa e disagio nella madre, la quale si sente inevitabilmente fra due fuochi.
Le donne sono particolarmente vulnerabili alla depressione quando i figli lasciano la casa, attraversano infatti una profonda perdita di identità e di finalità. Tuttavia, gli studi non indicano alcun aumento della malattia depressiva tra le donne in questa fase della vita.

Trattamento
Parlare dei propri sentimenti, con un professionista e ritrovare tutti quegli aspetti positivi che una maggiore libertà può offrire. Nel frattempo, è importante frequentare gli amici, avvicinarsi al proprio partner, riscoprire interessi messi tempo prima nel cassetto.
Questo può favorire anche il processo di adeguamento al nuovo ruolo ed identità di genitore. Il rapporto con il proprio figlio può diventare più paritario e diretto. Risulta utile ad evitare lo svilupparsi di tale sindrome,tenere sempre un “posto vuoto” nel nido mentre i figli vivono ancora in casa.
Sviluppare amicizie, hobby, carriera, e di opportunità ludiche. Fare piani con la famiglia, mentre sono ancora tutti sotto lo stesso tetto, piani specifici per una parte extra di denaro da spendere solo per gratificare e “coccolare”se stessi (viaggi, piccoli regali…) nel momento in cui si resterà soli.

DIPENDENZA AFFETTIVA


Né con te, né senza di te 


Negli ultimi anni, assieme alle diverse forme di dipendenza che possono attraversare l’animo umano (droga, alcol, sesso, gioco d’azzardo, etc..), si sente parlare di “dipendenza affettiva”.
Ci si può pertanto chiedere, dato che nelle situazioni sentimentali, capita spesso di soffrire, se sia questa la situazione che ci riguarda e come potervi far fronte. 
Innanzitutto occorre specificare che la dipendenza è un fenomeno tipico della specie umana e non è di per sé patologico, tanto che la prima e fondamentale esperienza di dipendenza è quella del neonato dalle figure adulte di riferimento. 
Per tutta la vita si sperimentano situazioni dipendenza, sia in amore che nelle diverse forme di legame, essa è indissolubile dal sentimento stesso che proviamo per l’altra persona, per questo possiamo definirlo attaccamento. J. Bowlby è stato il primo a parlare dell’importanza dell’attaccamento. Secondo lo studioso, le interazioni tra madre e bambino (che iniziano già durante la gravidanza, e che vanno dall'abbraccio, allo scambio di sguardi, alla nutrizione, al conforto ecc.), strutturano ciò che viene definito “sistema d'attaccamento”. 
Questo periodo dello sviluppo è molto importante perché porta allo crescita del sistema che guiderà le interazioni e gli scambi relazionali e affettivi. 
Poichè l’autonomia emotiva e la piena coscienza di se non si sono ancora formate, se si verificano esperienze di rifiuto e di abbandono da parte di uno o di entrambi i genitori, i bambini sperimentano inconsapevolmente sia l’ambivalenza tra il dolore e la rabbia per l’ amore non ricevuto, sia il dubbio di non valere poi tanto e di dover fare di tutto per essere migliori. 

Queste premesse, creano le basi per la possibilità di sviluppare una dipendenza affettiva, i cui sintomi principali sono:


- Profondo senso di colpa
- Rancore e rabbia nei confronti del partner
- Paura di perdere l’amore
- Paura dell’abbandono, della separazione
- Paura della solitudine e della distanza
- Terrore di mostrarsi per quello che si è
- Senso di inferiorità verso il partner
- Profonda gelosia
- Dedizione totale al partner e annullamento di se
- Abbassamento dell'autostima
- Senso di vergogna

Il dipendente dedica completamente tutto sé stesso all'altro, al fine di perseguire esclusivamente il suo benessere e non anche il proprio, come dovrebbe essere in una relazione "sana". Chi ha una dipendenza affettiva, nell'amore vede la risoluzione dei propri problemi. Il partner assume il ruolo di un salvatore, egli diventa lo scopo della sua esistenza, la sua assenza anche temporanea da un profondo senso di angoscia. Per riempire questa voragine esistono tanti altri modi: l’alcool, il fumo, il cibo, il super lavoro, ma essi non la potranno mai colmare veramente, possono aiutare a distrarsi, a non sentire, ma non risolvono il problema di fondo.

Chi è affetto da dipendenza affettiva non riesce a cogliere ed a beneficiare dell'amore nella sua profondità ed intimità. A causa della paura dell'abbandono, della separazione, della solitudine, si tende a negare i propri desideri e bisogni e si ripropongono i copioni passati, gli stessi che hanno ostacolato la propria crescita personale. 
La dipendenza si stabilisce perché c’è il rifiuto. Se non ci fosse, quasi sempre il presunto amore finirebbe in un tempo incredibilmente breve. Quello che imprigiona nelle relazioni, il dipendente affettivo, è la speranza e presunzione di riuscire prima o poi nella vita a farsi amare da chi proprio non vuole farlo, o di riuscire a curare chi non può o non vuole essere curato, o di salvare chi non può o non vuole essere salvato. Gli individui dipendenti solitamente cercano una o poche relazioni esclusive, sia con il partner che con gli amici, così da riprodurre quello schema comportamentale instauratosi nella fase post-natale.

Scelgono persone che sembrano in grado di affrontare la vita e che si possano prendere cura di loro e investono su queste figure di riferimento, responsabilità che altrimenti spetterebbero a loro in prima persona. Il soggetto dipendente, pur di compiacere l'altro, evita il conflitto ed ogni sorta di controversia per il timore dell'abbandono, rinnegando il proprio vero Sè. Quando non riesce a vivere un rapporto di coppia come un processo di crescita permanente, rimane intrappolato negli schemi disfunzionali appresi nel passato, alimentato dalle paure di solitudine e d’abbandono, e dalla speranza che l’altro si prenda cura di lui. 
La guarigione dalla dipendenza affettiva non è il distacco dalla persona o dalle persone da cui si era dipendenti, bensì l’acquisizione di una l’autonomia affettiva; questo è ciò che permette di entrare consapevolmente e realmente in relazione con gli altri, perché li vogliamo, perché li scegliamo, non perché abbiamo bisogno di loro per esistere. 

Giungere a questo livello non è semplice, anche perché nonostante il forte malessere è molto difficile chiedere aiuto per la pura del rifiuto. Il momento significativo che porta i dipendenti affettivi a chiedere aiuto, come nelle diverse forme di dipendenza, avviene quando si tocca il fondo, quando si ha la percezione del vuoto, della perdita di identità, della rabbia e dalla frustrazione di non vedere ricambiata la dedizione e il loro amore.

Durante questi dolorosi momenti si convincono che qualcosa non va, e trovano la spinta necessaria ad uscire dal circolo vizioso della dipendenza affettiva. 
In questo processo di acquisizione il ruolo di amici e persone care può essere fondamentale, ma non sufficiente. 

La ricerca di un esperto psicoterapeuta a cui affidarsi, permette di scoprire i nodi che hanno dato origine al circolo vizioso e di sperimentare una sana relazione di attaccamento, che può essere risolutiva, rispetto al malessere provato.

Fonte: psicologi-italia.it

PENSIERI


"Vieni a giocare con me,” le propose il piccolo principe, “sono così triste…”
“Non posso giocare con te, “disse la volpe, “non sono addomesticata.”
“Che cosa vuol dire ‘addomesticare’?”
“… vuol dire creare dei legami…”



“Creare dei legami?”
“Certo,” disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. 
(…) Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. E poi, guarda! Vedi, laggiù, in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me, è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticata. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: “Per favore, addomesticami” disse."

Il Piccolo Principe

domenica 24 marzo 2013

PENSIERI


QUANTO PESA UN BICCHIERE D’ACQUA?

Dipende dal tempo che lo si regge, da quante persone sono disponibili a offrire un aiuto. Se è per un minuto soltanto non è un problema, dopo un’ora si comincia ad avvertire un dolore alla mano, dopo un giorno si trasforma in una tortura, in ciascun caso il peso è lo stesso, ma più a lungo lo si tiene, più diventa pesante. 



PSICOLOGIA DELLO SPORT

Altro articolo di Psicologia dello Sport, i piccoli calciatori crescono tra aspettative proprie e dei genitori, tra soddisfazioni e rischi:


"Giovani calciatori: Aspettative e rischi"




Leggilo qui: www.forzapescara.tv

martedì 19 marzo 2013

PSICOLOGIA DELLO SPORT


Il mio ultimo articolo di Psicologia dello Sport, un modo nuovo di vedere la relazione tra Allenatore e Squadra.


“AMORE E RITORNO – Parallelo tra calcio e vita quotidiana”






Leggilo qui: www.forzapescara.tv




CORSO DI FORMAZIONE

CORSO DI PERFEZIONAMENTO IN PSICOLOGIA DELLA FAMIGLIA

Un excursus sul ciclo vitale della famiglia, soffermandoci sui momenti critici che si attraversano durante l’evoluzione del nucleo familiare, i difficili compiti di sviluppo di ognuno dei suoi membri, le tecniche per affrontarli e superarli nel modo più funzionale possibile.
Un Corso a cura della dott.ssa Ivana Siena ed organizzato da IGEAcps di Pescara.

Le iscrizioni sono aperte



giovedì 14 marzo 2013

ADOLESCENZA


Criticità nei giovani 


L'adolescenza è quella fase del ciclo di vita umano in cui si verifica la transizione dallo stato di bambino a quello di adulto. Essa copre un periodo piuttosto lungo, mutevole da individuo a individuo e da cultura a cultura, in cui a fronte delle numerose trasformazioni fisico-corporee si assiste a profondi cambiamenti psicologici, che investono le capacità cognitive, la sfera degli affetti e le competenze sociali della persona.
La definizione psicologica di adolescenza come fase di transizione non deve tuttavia comportare una svalutazione del contributo sociale e culturale da essa rappresentato. Il periodo di vita vissuto dagli adolescenti è infatti un preciso momento evolutivo con caratteristiche specifiche che lo rendono, pur nella continuità data dal processo di costruzione dell’identità, uno stadio autonomo.
C’è un’idea di adolescenza come percorso/processo di costruzione dell’identità all’interno del ciclo di vita: percorso che si realizza affrontando (coping) e in qualche modo risolvendo specifici compiti di sviluppo che trovano nel contesto e nella cultura di appartenenza del singolo adolescente la loro concreta esplicitazione.
Autori che hanno contribuito a definire il tema della costruzione dell’identità in adolescenza sono Erikson (1982) e Marcia (1966; 1980). Vygotskij (1934), Bruner (1990) e Cole (1996) hanno fornito gli strumenti metateorici per accostarvisi criticamente. A Vvgotskij si deve il concetto di “zona di sviluppo prossimale” (lo spazio d’intervento dell’adulto per accrescere le competenze del bambino) e l’idea che lo sviluppo di capacità naturali è in parte funzione dei cosiddetti “amplificatori culturali”, ossia gli strumenti che la cultura mette al servizio della mente. Il contributo dell’ultimo Bruner è rintracciabile nel concetto di “conoscenza” come ricerca e costruzione condivisa del significato, grazie al procedere complementare del pensiero logicoscientifico e di quello narrativo. Cole ha fatto dei contesti d’apprendimento il luogo della propria ricerca,sviluppando idee riguardanti capacità mentali di soggetti appartenenti a popolazioni non occidentali.

Adolescenza, identità e compiti di sviluppo
Erikson (1982) ha una visione dello sviluppo come “ciclo di vita’ costellato di eventi critici.
L’orizzonte al cui interno egli colloca il suo modello evolutivo è psicosociale, nel tentativo di comprendere non solo le dimensioni psichiche dello sviluppo della persona, ma anche quelle sociali e culturali. Quella che emerge è una visione complessa dell’individuo che si definisce in base a tre dimensioni fondamentali: biologica, psichica e sociale.
Il modello eriksoniano tiene conto non solo del presente vissuto dalla persona, ma anche del suo passato e del suo futuro, concependo l’esperienza individuale della persona sullo sfondo della sua inserzione socioculturale e storica.

Adolescenza e transizione all’adultità
Da diversi anni ormai è stata individuata una nuova fase di vita denominata post-adolescenza.
La costituzione di questa nuova fase nasce dall’esigenza di poter descrivere e spiegare da un punto di vista psicosociale il fenomeno che vede sempre più giovani o tardo adolescenti permanere nelle propria famiglia, rimandando una serie di scelte che una volta accadevano prima, contribuendo all’assunzione definitiva della propria identità.
Quello a cui spesso si assiste è un lento modificarsi delle relazione fra genitori e figli dovuto alla coabitazione prolungata nel tempo causata da elementi e difficoltà esterne, soprattutto di tipo lavorativo.
Erikson costruisce il suo modello in stadi e individua per ciascuno stadio del ciclo di vita un particolare compito di sviluppo che, a seconda di come viene affrontato e risolto, condurrà ad esiti evolutivi positivi o negativi. Ogni stadio dello sviluppo è infatti caratterizzato da un “dilemma psicosociale” che nasce all’interno della relazione soggetto/ambiente e che deve essere superato perché la crescita possa procedere in senso maturativo.
Il dilemma che l’adolescente deve affrontare è legato dall’antitesi fra identità e confusione d’identità e può portare a raggiungere la forza psicosociale positiva della fedeltà, ossia della capacità di essere coerenti e leali rispetto ad un impegno assunto.
Identificazione e sperimentazione vengono ad essere i due processi cruciali per la costruzione dell’identità in tale fase: attraverso il primo processo, l’adolescente abbandona le identificazioni precedenti, scegliendo nuovi modelli identificativi presenti nell’ambiente (amici, insegnanti e così via). Inoltre, egli si sperimenta nell’adesione consapevole a gruppi sociali che gli consentono di assumere svariati ruoli, favorendo il confronto, l’autoriflessione e la conoscenza di sé.
Al termine dell’adolescenza, il ragazzo dovrebbe possedere una maggiore e più articolata consapevolezza della propria identità e delle sue caratteristiche, che Erikson individua nelle seguenti componenti:
- continuità e coerenza (l’adolescente percepisce, pur nella discontinuità delle sue esperienze e vicende, una continuità e una consistenza interna);
- reciprocità (vi è consapevolezza di una sostanziale corrispondenza fra l’immagine che abbiamo di noi e quella percepita dagli altri);
- libertà ed accettazione dei/imiti (la comprensione dei propri limiti fisici e delle proprie capacità non intacca la consapevolezza e la libertà di scegliere); 
- avvertire una destinazione (aver costruito delle rappresentazioni realistiche di sé e del proprio
progetto/percorso di vita).

CPF 

MENOPAUSA


La donna e il cambiamento


Il termine menopausa (o climaterio) indica la cessazione nella donna dell'attività ovarica che si verifica mediamente tra i 45 i 53 anni e si accompagna a massicce modificazioni dell'assetto ormonale, a modificazioni fisiche e a cambiamenti psicologici.
La menopausa si inserisce nel processo di modificazioni del ciclo vitale della donna, il cui vissuto prevalente è costitutito dalla perdita della fertilità e dell’avvenenza fisica.
Non esiste un preciso rapporto tra specificic tratti di personalità e syndrome climaterica, ma una “vulnerabilità psicologica” che predispone ad una risposta negativa alle variazioni ormonali.
La menopausa costitutisce un momento di crisi che, analogamente ad altre tappe della vita della donna come la maternità e l’adolescenza, è caratterizzato da profondi cambiamenti interni ed esterni nelle diverse aree della realtà femminile. Mentre però la mertnità e l’adolescenza hanno un significato evolutivo, questa crisi ha un carattere di perdita e di lutto che possono portare ad una diminuzione della fiducia di base (Di Salvo, Cicuto, Prunelli).
Spesso alle modificazioni fisiologiche si accompagnano disagi psichici. Il quadro clinico è caratterizzato da uno squilibrio del sistema nervoso autonomo, cambiamenti repentini dell’umore, crisi d’ansia, insonnia e forme depressive, anche se solitamente di lieve entità.  Quando i sintomi sono eccessivi rispetto alla media, si può verificare una vera e propria crisi menopausa le che di solito però non deriva dalle reazioni fisiologiche tout court, ma dai vissuti personali e culturali rispetto al fenomeno della menopausa.  La donna nel periodo della menopausa può sentirsi più fragile, smarrita, meno capace di autocontrollo e  l’umore può variare come una banderuola seguendo gli eventi esterni.
Il problema clinico maggiore è la presenza di una sindrome depressiva. La depressione in menopausa è limitata a forme più lievi. Elementi di rischio è la difficoltà della donna di elaborare la ferita sull’identità sessuale, che deriva dalla perdita della capacita procreative.
Anche l’ansia riveste un’importanza particolare nella menopausa. Si presenta come senso di oppressione  interna o con insomnia, fobia di luoghi chiusi o aperti, al paura di allontanarsi da casa, la perdita di controllo dell’assunzione di cibo.
Andare in menopausa significa, inoltre, acquisire una nuova identità, sia come individuo che come donna, moglie e madre.
Entrare in menopausa di solito sancisce un cambiamento nel proprio ruolo e nel contesto familiare: i figli, di solito adulti, tendono a diventare più autonomi (certo non sempre è così) e ad uscire di casa, la funzione materna deve ridimensionarsi e i coniugi devono ritrovarsi di nuovo come coppia dopo molti anni di pura genitorialità. Questa ridefinizione può essere per la donna molto drammatica.
Le possibili reazioni a questo passaggio evolutivo nella vita di ogni donna, dipendono, oltre che dai cambiamenti ormonali, dalla personalità individuale e dal contesto sociale in cui la persona vive: ad esempio, una donna realizzata dal punto di vista professionale solitamente vive la menopausa con meno drammaticità, poiché ha un ruolo specifico (quello sancito dalla sua professione) oltre a quello ricoperto in famiglia.
I periodo menopausale rappresenta quindi, una tappa di particolare importanza per l’equilibrio affettivo ed emotivo della donna, durante il quale possono ricomparire o riattivare difficoltà del passato o carenze e problematiche fino ad adesso latenti. 
Contro di Psicoterapia Familiare

FONTE: www.psicozoo.it


mercoledì 13 marzo 2013

CORSO DIFESA PERSONALE




SEGRETERIA PROVINCIALE DI PESCARA
organizza

Corso Base di Difesa Personale

Riservato Alle Donne
 


      


Il problema della violenza sulle Donne è un argomento sempre vivo!
Da oggi puoi DIRE BASTA!


L’obiettivo primario di questo corso è sviluppare le capacità individuali, fisiche e psichiche, nel gestire l’aggressività altrui. Imparare a difendersi significa anche affrontare la propria paura, allenare i riflessi, aumentare la fiducia in se stessi. La prima difesa è quella psicologica.
Nel corso verranno proposte metodologie efficaci che mirano a fare acquisire maggiore sicurezza permettendo una tempestiva valutazione delle situazioni di rischio fisico e psicologico, nonché di affrontare situazioni improvvise e cariche di tensione e paura. Le tecniche presentate verteranno su esercizi che non privilegiano la forza ma che consentono di contrastare le aggressioni indipendentemente dall’età e dalla struttura fisica, imparando inoltre ad utilizzare ogni oggetto a disposizione come strumento di difesa.



Partecipa al corso base per avere la capacità di saper gestire  una situazione di violenza, sia verbale che fisica! Un corretto atteggiamento mentale, il controllo emotivo e dello stato della paura , lo studio delle tecniche di autodifesa in piedi e a terra, tecniche di divincolamento ed infine una preparazione legislativa per l'uso di dissuasivi ti daranno la consapevolezza di non essere più una Donna vulnerabile!!
BASTA VIOLENZA!
DIFENDITI!
I CORSI SARANNO TENUTI DA PERSONALE ALTAMENTE QUALIFICATO E CON ESPERIENZA SUL CAMPO.
Maestro Pietro TORTI – cintura nera, 5° DAN Karate – 3° livello M.G.A. Istruttore Difesa Personale Polizia di Stato-
Prima lezione propedeutica per il controllo della paura a cura della psicologa - psicoterapeuta Dott.ssa Ivana SIENA
Uso di articoli dissuasivi:  Vladimiro RULLI
INFO E ISCRIZIONI: 388/8542148 – mail: v.rulli@inwind.it


UGL POLIZIA DI STATO
Segreteria Provinciale Pescara – Via Pesaro 7 – tel/fax 0852057360
   

venerdì 8 marzo 2013

PENSIERI


Ogni parte aspira sempre a congiungersi con l’intero per sfuggire all’imperfezione; 
l’anima sempre aspira ad abitare
un corpo, perché senza gli organi corporei 
non può agire ne’sentire. 
Essa funziona dentro il corpo come fa il vento 
dentro le canne di un organo, 
se una delle canne si guasta, il vento
non produce più il giusto suono”.
Leonardo Da Vinci

mercoledì 6 marzo 2013

LA PERDITA


La Famiglia di fronte alla morte


Il pensiero della morte occupa più di ogni altro tema la mente dell’uomo suscitando in lui e in chi gli vive accanto reazioni cariche di emotività.
Nella nostra società manca una cultura della fine della vita che tenga conto del travaglio psicologico, spirituale, etico, relazionale che la morte ed il lutto provocano negli individui, nonché del significato che questi eventi assumono nella trasmissione del sapere familiare e del patrimonio culturale, simbolico e morale che tiene in piedi il corpo sociale e dà continuità al succedersi delle generazioni. La tendenza più diffusa è quella di emarginare questi eventi, che certamente prospettano problematiche complesse e difficili del vivere individuale e sociale.
La morte ed il lutto sono stati quasi completamente sottratti ad ogni sacralità sia religiosa che laica: è subentrata una diffusa intolleranza sociale all’espressione della tristezza e della disperazione, per cui chi soffre della perdita di una persona significativa è molto meno sostenuto ed assistito di quanto avveniva in passato.
Fino alla I° metà del secolo scorso si moriva in casa e le persone amiche ed i parenti avevano il compito di accompagnare il morente ed insieme di sostenere la famiglia. L’avvicinarsi della morte era un evento sociale, sacro, trasformativo, religiosamente vissuto, che obbligava a confrontarsi con inevitabilità della fine e del distacco, ma insieme consentiva la condivisione e la trasmissione di valori e credenze: c’erano i messaggi da affidare al morente e l’attesa dei suoi insegnamenti che costituivano il passaggio di consegne alle generazioni successive, i riti comunitari che avevano la funzione di nutrire simbolicamente e rafforzare i legami.
In tal modo bambini ed adulti familiarizzavano con questi eventi temuti e minacciosi e la collettività e le famiglie, che in questi riti comunitari e religiosi si riconoscevano, si sentivano confermate dall’acquisizione di un patrimonio simbolico e relazionale da trasmettere alle generazioni future.
Nella società attuale queste ritualità appaiono sempre meno praticabili, sono consumati il più rapidamente possibile e vissuti in genere in solitudine, come eventi strettamente individuali e privati.
Anche i riti funebri si svolgono spesso in un clima di meccanica doverosità, di estraneità emotiva al contenuto spirituale del rito.
Secondo M. Bowen la modalità di affrontare il rito funebre al giorno d’oggi ha solo la funzione di negare la morte e di perpetuare i legami emotivi irrisolti tra il morto ed i vivi.
Tra le consuetudini funerarie troviamo il portare via il corpo dall’ospedale senza che la famiglia abbia un contatto con la persona cara, il non voler vedere il corpo per ricordarlo com’era in vita, evitare di portare i bambini ai funerali, riti strettamente privati per non venire a contatto con l’emotività di altre persone.
Da ciò derivano una serie di eterne fantasie e di immagini distorte e poco realistiche che non possono più essere corrette e facilitano il permanere di quei legami emotivi irrisolti tra le persone che influenzano le future relazioni e continueranno a dirigere il corso di un’esistenza.
I funerali dovrebbero invece permettere di “seppellire definitivamente il morto al momento della morte”.
Esso ha assolto la sua funzione principale quando porta parenti ed amici al più intimo contatto funzionale possibile sia tra loro che  con la cruda realtà della morte in questo momento così carico di emotività.
Chi conosce il dolore totale dei morenti, i travagli dei familiari durante la malattia e “l’onda d’urto emotiva” che per mesi o anni si trasmette e permane nel sistema familiare, sa quanto siano utili la compartecipazione, la condivisione e la manifestazione dei sentimenti.
Il lutto naturalmente viene vissuto in tempi e modi molto personali e differenti: Bowen a questo proposito parla di sistema relazionale “chiuso” e “aperto”per descrivere la morte come un fenomeno all’interno della famiglia.
Si dice sistema relazionale aperto quello in cui l’individuo è libero di comunicare una notevole percentuale di pensieri, sentimenti e fantasie interiori ad un altro, il quale può a sua volta rispondere allo stesso modo.
Il sistema relazionale chiuso è invece un riflesso emotivo automatico che protegge il sé dall’ansia presente nell’altra persona, per quanto la maggior parte delle persone affermi di evitare gli argomenti tabù  per non turbare l’altro.
La morte è il principale argomento tabù, e per questo molte persone muoiono sole, prigioniere dei propri pensieri che non riescono a comunicare ad altri.
In questi casi vengono attivati almeno due processi: uno è il processo intrapsichico che implica sempre un certo diniego della morte, l’atro é il sistema relazionale chiuso.
Intorno alla persona affetta da male incurabile ruotano almeno tre sistemi chiusi:
v Quello che agisce all’interno del paziente: il malato ha la consapevolezza della morte incombente ma non la comunica a nessuno
v Quella che agisce all’interno della famiglia: essa riceve informazioni dal medico e vi aggiunge altre notizie prese da fonti diverse amplificando, distorcendo e reinterpretando il tutto durante le conversazioni che avvengono a casa. Si arriva così a preparare il comunicato per il paziente in modo accuratamente riveduto e corretto per evitargli una reazione ansiosa.
v Quella che agisce tra il personale medico e sanitario: questo sistema è influenzato dalla reattività emotiva alla famiglia e dalle relazioni che si stabiliscono all’interno de personale stesso. Quando il medico è emotivo tende ad usare un gergo che la famiglia non comprende, quando è ansioso tende a parlare troppo ed ascoltare poco producendo messaggi vaghi che vengono facilmente fraintesi dai familiari.
Molte energie vengono così impiegate nello sforzo di negare la verità al malato e talvolta anche ad alcuni familiari.
La congiura del silenzio, a cui spesso aderisce collusivamente anche il malato, impedisce di creare uno spazio affettivo di riconoscimento, di consolazione reciproca e di condivisione per elaborare il dolore della separazione. In genere i sentimenti personali vengono inibiti e taciuti senza riconoscerne l’importanza, l’irrecuperabilità e le conseguenze future.
In contrasto con l’idea che l’Io sia troppo fragile in alcune situazioni, le persone gravemente malate sono riconoscenti quando si offre loro l’opportunità di parlare apertamente della morte.
Naturalmente i familiari devono compiere un percorso interiore simile a quello del malato per adattarsi alla perdita.
La parola transizione assume in questo caso connotati particolari, in quanto è un passaggio che attiva soprattutto gli aspetti simbolici.
Sappiamo che l’entrata di nuovi membri così come l’uscita sono forti marcatori di passaggio perché mutano la struttura della famiglia e le relazioni tra i membri.
Sia che la morte sia l’epilogo di un lungo percorso di sofferenza o abbia i caratteri dell’evento improvviso, essa obbliga i familiari a confrontarsi con l’inevitabilità del distacco e a procedere ad un impegnativo lavoro di passaggio di consegne e di distribuzioni delle parti ed eredità familiari.

Centro di Psicoterapia Familiare

martedì 5 marzo 2013

PENSIERI


Beati coloro che si baceranno sempre al di là delle labbra......
varcando il confine del piacere.....
per cibarsi dei sogni.....
--Alda Merini--



PSICOLOGIA DELLO SPORT


Calcio e Depressione



Uno dei disturbi psichici rispetto al quale sono stati maggiormente studiati i collegamenti con lo sport è la depressione. Considerando questi due ambiti appare scontata la concezione secondo cui lo sport è una delle maggiori risorse per uscire dal tunnel di una patologia così invalidante come la depressione. Se si pensa che lo stesso termine depressione implica una “mancanza di pressione”, che sia fisiologica (dovuta quindi a un calo di produzione di endorfine) o più semplicemente legata ad un atteggiamento nei confronti della vita, è chiaro che la pratica sportiva rappresenta una potenzialità riabilitativa, nonché risolutiva, di questo male.
Ciò che interessa però in questo contesto è capire come possa avvenire il processo inverso, ossia cosa accade nella mente di determinati atleti, dalle note capacità, che imboccano e percorrono una strada di cui non riescono a vedere la via d’uscita.
In generale in tutti gli sport, ma nello specifico nel calcio, è necessario  fare una netta distinzione tra coloro che a fine carriera trovano maggiore difficoltà a reinventarsi e ricollocarsi nel nuovo stile di vita e coloro che cadono nell’oblio del male oscuro mentre ancora sono messi alla prova dai ritmi frenetici della professione scelta.
Nel primo caso il “pensionamento” avviene in un’età in cui si è relativamente giovani, quindi ancora con la voglia di fare e, essendo un mestiere legato anche all’immagine, di essere qualcuno.  Da personaggio si torna ad essere persona e questo passaggio somiglia a una traumatica perdita d’identità; avviene così che grandi atleti finiscono per rifugiarsi nella tristezza, nel proprio mondo interiore fino a rimanervi bloccati. Si perde l’unione con la propria essenza che,  fino a quel momento, era stata inevitabilmente sostituita da un ruolo mirato verso un unico obiettivo, riuscire in campo. Riabilitare le papille gustative al nuovo stile di vita, più calmo e privo di quella pressione tanto odiata quanto necessaria,  si traduce in una ridotta capacità di percepire i propri sensi e quindi se stessi. La famiglia in questa fase è importantissima per il nuovo adattamento, fermo restando che gli eccessi dello stile di vita vissuta ne abbiano preservato la sopravvivenza.
Il gioco del calcio è uno degli sport più famosi e seguiti nel mondo. È un gioco complesso e ricco di sfaccettature. Porta i suoi protagonisti lontano da casa e famiglia in una fase di vita più che delicata, tra adolescenza e post-adolescenza. Questi piccoli uomini vengono catapultati in un mondo fatto di popolarità e riflettori accesi 24h al giorno e il rischio di un “surriscaldamento” è fisiologico.
Nei campionati di serie A la pressione è costante con dei picchi che si innalzano a partire dal momento del ritiro fino all’uscita dal campo a fine partita. Per molti il successo è un’occasione per vedersi riconoscere nelle proprie capacità e non solo: tifoserie, assegni sempre più cospicui, eventi mondani dedicati, cerchie di donne bellissime e personaggi famosi che fino all’adolescenza si potevano guardare solo attraverso la televisione, ora diventano una realtà tangibile. E ancora, per alcuni, la popolarità rappresenta la rivincita verso una vita di povertà dove il pallone si trasformava in un rifugio da cattive compagnie e abitudini dannose.
Una volta conquistate tutte queste piccole mete l’incubo diventa reggere la pressione, cercare di non essere tagliati dalla squadra, il timore di non comparire sulle pagine dei giornali e di essere dimenticati dai media. La testimonianza più esplicita rispetto a questo lato della fragilità del calciatore viene da Martin Bengtsson  che nella sua autobiografia Nell’Ombra di San Siro spiega: “Sei solo, lontano da casa e hai già sperimentato soldi e successo: puoi perdere l’equilibrio. Le aspettative stritolano. La depressione è la prima minaccia per un giovane calciatore”. Un giorno Martin torna nel suo appartamento, mette su un disco di David Bowie e si taglia le vene. Lo salva la donna delle pulizie che lo trova per caso in un bagno di sangue.
Il calcio è un reality a livello mondiale e come in ogni reality ci sono protagonisti che mostrano più o meno apertamente la loro personalità, le loro debolezze. Una depressione non è però funzionale a mantenere la facciata, pertanto deve essere mascherata il più possibile. Accade così che un campione come Gary Speed, all’epoca commissario tecnico del Galles, scuote il mondo del pallone una domenica mattina togliendosi la vita nella sua abitazione nel Chesire. Un gesto considerato come unica soluzione da chi soffre di depressione e che nella sua tragicità ha però spinto molti altri giocatori a richiedere una aiuto psicologico concreto. In Inghilterra è nato anche un servizio telefonico specifico ad accogliere richieste d’aiuto di questo tipo, dove giocatori ed ex giocatori possano trovare un antidoto al mal di vivere.
Per quanto ci possano essere cause comuni, l’insorgere di una depressione deve essere interpretata nella specificità del caso singolo, considerando la storia personale e le esperienze proprie del giocatore in questione. I segnali di un malessere simile possono variare dallo shopping compulsivo al ricorrere all’alcool, dal gioco d’azzardo alla forte crisi coniugale, il denominatore comune è il senso di solitudine per il quale non si vede via d’uscita.
Un ultimo doveroso esempio viene dall’attaccante Marco Bernacci, il quale abbandonò il Torino dopo appena una giornata di campionato. Si parlò, a denti stretti, di stato depressivo. Un anno dopo, Bernacci è tornato a giocare, nel Modena, e a segnare. Lui tra i due colori del pallone da calcio ha scelto il bianco e ce l’ha fatta.


Dott.ssa Ivana Siena