venerdì 17 maggio 2013

FAMIGLIE RICOSTITUITE


Le fasi del ciclo vitale delle famiglie ricostituite


Hill e Duvall(60) sostengono che ciascun membro della famiglia, sia che appartenga alla generazione più giovane, a quella di mezzo o alla più anziana, ha i propri compiti di sviluppo, specifici per ogni fase, il cui positivo conseguimento è strettamente connesso alla appropriata realizzazione dei compiti evolutivi da parte degli altri componenti il nucleo familiare.
Il percorso evolutivo che la famiglia compie nel corso degli anni attraverso il passaggio da una fase all'altra è considerato da Malagoli Togliatti e Telfener (1991)(61) come un processo di continua ristrutturazione dei rapporti tra i membri della famiglia. Le fasi sono scandite da eventi naturali che necessariamente portano a dei cambiamenti nell'organizzazione del sistema familiare. Ad ogni tappa la famiglia deve affrontare una situazione di crisi in quanto, in seguito al cambiamento, le vecchie modalità di funzionamento non risultano essere più idonee, e deve raggiungere una nuova organizzazione familiare.
Neugarten (1976)(62) individua le tappe che secondo lui dovrebbero scandire il ciclo di vita di una famiglia: la fase della fine del periodo di formazione scolastica, quella del matrimonio, quella della genitorialità e, infine, quella del pensionamento. Secondo l'autore, queste fasi implicano numerosi cambiamenti nel proprio concetto di sé e nel senso d'identità di un individuo e sono, inoltre, indicatrici dell'avvenuta incorporazione di nuovi ruoli sociali e psicologici e del nuovo adattamento.
Duvall (1950) suddivide il ciclo vitale della famiglia in otto stadi, e ne sottolinea per ognuno i rispettivi compiti di sviluppo. Nonostante le numerose modificazioni, gli eventi nodali da lui rilevati sono: il matrimonio, la nascita e la cura dei figli, la loro uscita da casa, il pensionamento dei genitori e la morte.
Haley (1973), invece, individua sei fasi del ciclo e ritiene che la tensione familiare aumenti al momento del passaggio dall'attuale alla successiva fase. Secondo Haley è molto facile che i sintomi compaiano in un membro della famiglia quando si verifica una interruzione o alterazione della "sequenza normale" e rappresentano un segnale che la famiglia è bloccata ed è incapace di raggiungere la fase successiva.
Anche E. A. Carter, e M. McGoldrick (1980) individuano sei stadi nel ciclo di vita familiare che coincidono con i cinque evidenziati da E. Scabini (1989) ad esclusione del primo stadio, giovane adulto, quello del raggiungimento dell'indipendenza dalla famiglia di origine, che l'autrice considera come una fase del ciclo individuale più che familiare. I restanti stadi di sviluppo, con i relativi eventi critici, sono:
1) Stadio della costituzione della coppia: è la fase in cui si deve costituire un'identità di coppia attraverso la definizione dei confini del nuovo sistema coniugale e la ridefinizione delle relazioni con la famiglia estesa. L'evento critico è il matrimonio, «esso dovrebbe significare che sono stati fatti progressi notevoli sulla strada dell'indipendenza emotiva dalla famiglia di origine, non che tale processo sia sul punto di iniziare, o che venga automaticamente compiuto con la celebrazione della cerimonia» (E. A. Carter, M. McGoldrick 1980). Lo studio della fase di formazione della coppia implica il prendere in considerazione un sistema composto da tre famiglie, le due di origine e la nuova coppia, a più generazioni, i cui legami e il cui funzionamento condizionano la storia relazionale del nucleo in via di formazione. 
Come abbiamo visto, il matrimonio richiede che la coppia attui una rinegoziazione di una grande quantità di situazioni in precedenza regolate per ciascuno dei due da principi e norme stabiliti dai propri genitori. Tale rinegoziazione deve essere effettuata anche nei confronti delle proprie famiglie d'origine, dei fratelli e delle sorelle, degli amici e degli altri parenti, coinvolgendo in un modo o nell'altro i rapporti interpersonali in cui i due sono impegnati. Un'altra fonte di stress per le famiglie d'origine, in questa fase, è il dover accettare come proprio membro un estraneo, il che comporta un improvviso allargamento dei confini e un mutamento di status per tutti i membri del sistema.
2) Stadio della famiglia con bambini: l'evento nascita del primo figlio rende manifestatamene visibile l'unione tra i coniugi e conferisce ad essa un carattere di irreversibilità in quanto il ruolo genitoriale non è revocabile. La nascita di un figlio è percepita come fonte di sentimenti affettivamente costruttivi e gratificanti per i genitori; il padre e la madre si sentono meno centrati su se stessi e maggiormente preoccupati per la crescita del bambino. Un altro aspetto positivo di questo evento è l'aumento della coesione familiare e il senso di identificazione con il figlio. I genitori rivivono nel figlio i bisogni e i desideri che li legano alla propria infanzia e al proprio passato. Invece, tra gli aspetti negativi i genitori citano: le richieste fisiche di cura del bambino, l'aumento delle tensioni nella relazione marito-moglie, i costi emotivi e le restrizioni riguardanti la vita sociale, lo svago, le amicizie e la carriera che esso comporta.
Accettare il piccolo nel sistema è il compito più difficile. Solo se ciascun membro della coppia ha raggiunto un buon grado di differenziazione del sé e ha stabilito con il suo partner una relazione fondata sulla intimità e non sulla fusione, essi saranno in grado di prendersi cura del figlio. I coniugi hanno da questo momento il compito di imparare a comunicare non più solo come membri di una diade coniugale, ma anche come membri di una coppia parentale all'interno di una triade familiare. Inoltre, oltre al riadattamento interno della diade coniugale, la nascita di un figlio richiede una diversa definizione delle relazioni nella famiglia estesa, poiché crea nelle famiglie di origine nuovi ruoli.
3) Stadio della famiglia con adolescenti: in questa fase l'evento critico "adolescenza dei figli" mette a dura prova le capacità adattive dell'organizzazione della famiglia. C'è bisogno di un aumento della flessibilità familiare per gestire le entrate e le uscite dei membri, in particolare per permettere il progressivo svincolamento dei figli, e di una ridefinizione delle relazioni e delle forme dell'attaccamento e della cura;
4) Stadio della famiglia trampolino di lancio: è una fase contraddistinta dallo svincolo e dall'allontanamento dei figli, necessita di un ulteriore aumento della flessibilità familiare per far fronte all'uscita dei figli e all'entrata dei generi, delle nuore e dei nipoti oltre ad una rinegoziazione e ad un reinvestimento, da parte dei genitori, nel rapporto di coppia. Il processo della regolazione delle distanze impegna, in questa fase, il sistema familiare contemporaneamente a più livelli. I figli giovani adulti si devono staccare dai loro genitori; i genitori, a loro volta, si devono separare dai figli e si devono preparare al distacco dai propri genitori, oramai anziani; i genitori anziani, infine, si staccano definitivamente dal ruolo attivo e da dirette responsabilità nei confronti della società. Il compito comune a tutte e tre le generazioni in questa fase è quello di progredire verso una sempre maggiore differenziazione e una più profonda individuazione.
L'incapacità dei genitori di riorganizzare i rapporti all'interno della coppia e di accettare l'uscita dei figli può portarli a sperimentare la cosiddetta "sindrome del nido vuoto": quando per il genitore il confine tra il sè e il figlio giovane-adulto è indistinto; l'oggetto perso viene sentito come il proprio io, e la separazione dal figlio viene percepita come un'angosciosa minaccia alla propria sopravvivenza e perciò ostacolata.
5) Stadio della famiglia anziana: fase caratterizzata da eventi critici quali il pensionamento, la malattia o la morte dei coniugi. Implica un reinvestimento profondo dei genitori nella coppia e un riavvicinamento dei figli alla famiglia di origine per fornire cure e supporto emotivo.
Secondo McGoldrick M. e Carter E. A. (1980) il verificarsi della separazione e del divorzio altererebbero il "normale" evolversi del ciclo vitale della famiglia secondo le fasi precedentemente riportate. Per questo motivo essi affermano che: dal momento della separazione della famiglia unita fino alla eventuale ricostituzione di un nuovo nucleo, da parte di uno o entrambi i coniugi, nuovi stadi del ciclo vitale devono essere percorsi per ristabilire l'equilibrio e consentire l'evoluzione del sistema familiare. Questi autori hanno individuato tre stadi principali, aggiuntivi, con relative sottofasi, che caratterizzerebbero il ciclo vitale delle famiglie coinvolte in un processo di ricomposizione:
1) Stadio della pianificazione e attuazione del divorzio:
* Fase della presa di decisione di separarsi: comporta: l'accettazione sia dell'incapacità di risolvere le tensioni matrimoniali necessarie per continuare la relazione, sia delle proprie responsabilità nel determinare il fallimento del matrimonio.
* Fase della pianificazione dello scioglimento del sistema: richiede l'individuazione e l'attuazione di soluzioni a questioni riguardanti la custodia, la frequentazione dei figli, gli aspetti economici ed i rapporti con i parenti, che risultino vantaggiose per tutti i membri del sistema familiare.
* Fase della separazione: implica: il far fronte alla perdita della famiglia unita; l'adattamento alla condizione di single; la disponibilità a mantenere una relazione collaborativa riguardo alla funzione genitoriale, rinunciando però all'attaccamento all'ex-coniuge, e la riorganizzazione dei rapporti con i membri della famiglia estesa.
* Fase del divorzio: necessita del superamento del dolore, della rabbia, del senso di colpa; l'abbandono delle fantasie di riunificazione e, al tempo stesso, il recupero di speranze, sogni e aspettative legate all'istituzione del matrimonio.
2) Stadio del "post-divorzio":
* Fase dei nuclei monogenitoriali: richiede, al genitore affidatario, un atteggiamento flessibile e la volontà di non ostacolare la frequentazione e la funzione genitoriale dell'ex-coniuge e dei suoi familiari, oltre a ricrearsi una propria rete sociale; al genitore non residente, di trovare il modo di proseguire nel suo compito educativo, di non instaurare un rapporto competitivo e antagonista con l'ex-coniuge ed i suoi familiari.
3) Stadio della formazione della famiglia ricostituita:
* Fase dell'inizio di una nuova relazione: necessita, da una parte, il superamento del senso di perdita legato al primo matrimonio (divorzio psichico), dall'altra, il reinvestimento nel matrimonio e nella formazione di una nuova famiglia, oltre alla disponibilità a far fronte alla complessità e alla ambiguità che ciò comporta.
* Fase di concettualizzazione e pianificazione del nuovo matrimonio e di una nuova famiglia: in questa fase c'è bisogno che l'adulto riconosca e accetti le proprie paure, quelle del suo nuovo compagno e quelle dei figli, riguardo al "rimatrimonio " e alla formazione di una nuova famiglia. Inoltre è fondamentale il rispetto dei tempi di ognuno per adattarsi alla complessità ed alla ambiguità legata: alla molteplicità dei nuovi ruoli; ai confini di spazio, tempo, appartenenza e autorità; alle problematiche affettive come i sensi di colpa, i conflitti di lealtà, il desiderio di mutualità, le ferite legate al passato e mai rimarginate.
Fase del "rimatrimonio" e della ricostituzione di un nuovo nucleo: implica: l'accettazione di un differente modello di famiglia munito di confini permeabili; la loro riorganizzazione per includere il nuovo partner come "terzo genitore" (Oliverio Ferraris A., 1997); la disponibilità verso le relazioni dei figli con l'ex-coniuge ed i suoi familiari e il condividere memorie e storie di vita per aumentare l'integrazione all'interno della famiglia ricostituita.

Centro di Psicoterapia Familiare

giovedì 16 maggio 2013

UNIVERSITA' della LIBERA ETA' - IL CICLO DI VITA DELLA FAMIGLIA


Si è svolta, martedì 14 Maggio 2013 presso il MU.MI di Francavilla al Mare (CH), la lezione sul “Ciclo di Vita della Famiglia” tenuta dalla dott.ssa Ivana Siena nell'ambito dell'anno accademico dell'Università della Terza Età. I partecipanti hanno approfondito la tematica oggetto della lezione palesando grande interesse in particolare sui concetti di legame, confine e dinamiche familiari.
La lezione è stata introdotta dal Prof. Massimo Pasqualone ed hanno presenziato alla stessa l’artista abruzzese Tiziana Giampaolo ed il Presidente della’Associazione Culturale MOTUS, l’Avv. Michele Accettella.

Luciano Rapa


















PAURA


RIFLESSIONI SULLA PAURA: intervista alla dott.ssa Anna Oliverio Ferraris


Che cos'è la paura? La paura è un'emozione che appartiene all'uomo, ma anche ad altri animali. È come un campanello d'allarme, una reazione dinanzi ad un pericolo, ma, a differenza degli animali, per l'uomo la paura riveste un valore ambivalente, oscilla tra istinto ed elaborazione culturale e si colloca nel cuore della nostra vita psichica divenendo un determinante fattore di crescita o d'involuzione. Basta osservare le diverse espressioni che utilizziamo per parlare della paura: paura di crescere, paura di amare, paura del futuro, paura del nulla, paura del prossimo, paura di noi stessi. Allora che ruolo gioca la paura nella sfera psichica individuale. Attraverso quali dinamiche psichiche l'individuo affronta, controlla, rielabora o subisce la paura? Quando e secondo quali modalità essa sconfina nella patologia? Come possiamo imparare a non avere paura della paura?
La paura fa parte della nostra vita quotidiana, ma quando e perché oltrepassa i suoi limiti e diviene patologia?
OLIVERIO FERRARIS: La paura è una delle emozioni fondamentali con cui noi nasciamo e che, come ogni emozione, ci serve per strutturare il nostro mondo, la nostra vita. Chi dice di non avere paura è semplicemente un incosciente, perché corre moltissimi rischi. Però non bisogna lasciare che essa superi certi limiti e che diventi invasiva, perché la si contrasta individuando i modi per fronteggiarla. Se noi pensiamo di poter avere un controllo su certe situazioni, la paura diminuisce lasciando spazio alla razionalità che interviene per trovare i modi di soluzione. Invece in certe situazioni la paura finisce per essere terrore, soprattutto quando pensiamo di non avere vie d'uscita. È importante dunque che si impari fin da piccoli a valutare i modi per fronteggiarla, che sono tanti e diversi. Quando un bambino è molto piccolo si affida alle sue figure di attaccamento. Poi man mano che cresce deve imparare a contare su sé stesso.
Qual è il confine tra paura istintiva e paura culturale?
OLIVERIO FERRARIS: La paura è sempre istintiva, poi si colora in base a fattori culturali. Naturalmente ogni epoca ha le sue paure. Nel Medioevo c'era la paura della peste nera verso cui la gente si sentiva completamente esposta, priva di difese. Oggi invece abbiamo paure diverse: la bomba atomica, il terrorismo, le armi biologiche. Ecco, tutto quello che sfugge al nostro controllo genera paura ed alcune paure sono più diffuse di altre proprio per la sensazione di non poter controllarle. 
Quando, la paura della morte, è presente nella vita psichica di un individuo?
OLIVERIO FERRARIS: In realtà tutte le paure originano da quella paura fondamentale, dalla consapevolezza che noi siamo persone finite e che un giorno moriremo. Questo è l'elemento irrisolvibile che crea tutte le altre paure. La soluzione consiste nel rassegnarci all’idea di doverci preparare a questo evento ultimo, accettando la propria condizione di esseri che nascono e che muoiono. Dobbiamo proiettarci in un sistema più vasto, perché noi facciamo parte del genere umano. Dovremmo mantenere un pizzico di quel senso di onnipotenza che appartiene ai bambini nei primi anni di vita. Un bambino pensa di non morire, pensa che muoiano gli altri, poi, man mano, si rende conto che anche per lui la morte è inevitabile.
In che modo il singolo individuo esorcizza le proprie paure?
OLIVERIO FERRARIS: Non c'è un modo particolare. Molto dipende dall'età, dall'esperienza e anche dalle caratteristiche individuali. C'è chi si rifiuta di pensarci, chi invece la sfida continuamente per sondare i suoi limiti; è il caso di chi pratica discipline sportive che spingono l’individuo al limite del possibile. Ecco, c’è chi affronta il rischio per vedere quanto egli sia è forte e quanto possa osare. Poi ci sono altri modi basati sulla razionalità, sulla strategia. Per esempio nella storia antica vi è una differenza tra il coraggio fisico di Achille e quello razionale di Ulisse. Quest’ultimo, quando si trova nella grotta di Poliremo, accetta che il ciclope mangi alcuni dei suoi compagni, senza lasciarsi prendere dal panico, perché egli ha una sua strategia. Così come ci sono tante forme di paura, ci sono altrettante forme di coraggio. È necessario che la paura sfoci nel coraggio, che non è incoscienza, perché il coraggio è qualcosa di calcolato e non sempre si manifesta nello stesso modo. Di volta in volta, valutando la situazione, si può attuare una forma di coraggio che consista nel prendere immediatamente un’iniziativa, così come invece richieda la capacità di saper aspettare il momento giusto per reagire.
È possibile trasmettere le paure per contagio?
OLIVERIO FERRARIS: La paura è molto contagiosa, perché noi siamo degli animali gregari che vivono in gruppo e se qualcuno individua una minaccia, la trasmette agli altri attraverso segnali specifici. Scatta l’allarme che, spesso, anziché venire elaborato al fine di trovare una soluzione adeguata per fronteggiarlo, si trasforma in panico incontrollabile. In caso di incendio all'interno di uno spazio dove siano radunate moltissime persone, come uno stadio, una sala cinematografica o un teatro, coloro che si trovano in prossimità delle uscita di sicurezza si precipitano fuori, mettendo in agitazione coloro che invece sono collocati più in dietro. Se in questi casi ci si limita alla reazione istintiva, allora assistiamo alla tragedia di chi viene calpestato, di chi viene colto da malore, e così via, se, invece, pensiamo alla strategia migliore, che è quella di aspettare che i primi escano rapidamente dalla sala e che gli altri aspettino qualche secondo, la tragedia sarebbe evitata. Ma questi comportamenti debbono essere insegnati. È per questo che, in alcuni locali, vengono effettuati delle simulazioni di crisi, per poter sondare il modo migliore per consentire l’evacuazione dell’edificio senza che vi siano danni alle persone.
Noi sappiamo che condividere le paure con altri ci aiuta a superarle. Quindi condividere la paura è un bene?
OLIVERIO FERRARIS: Si. Raccontarsi le paure spesso significa esorcizzarle. Esistono delle paure che, per alcune persone, non hanno alcuna soluzione e la disperazione di fronte a questa consapevolezza spesso può venire alleviata, se non addirittura rimossa, dalla condivisione con gli altri della paura stessa. È quanto è accaduto nei campi di concentramento, dai quali non c’era via d'uscita, ma la possibilità di stare insieme agli altri aiutava nei momenti critici.
Molte persone, per paura di affrontare la realtà, si adeguano ad essa. Secondo Lei, questo conformismo, deriva dalla paura di essere sé stessi?
OLIVERIO FERRARIS: Si. Ci sono persone che preferiscono adeguarsi, conformarsi al gruppo piuttosto che esporsi a sostenere una tesi non condivisa dalla collettività. Questo perché l’idea di rimanere soli aumenta il livello di paura e di ansia. Soltanto chi è sicuro di sé ha il coraggio di portare avanti un’idea che ritiene giusta. Ecco perché il coraggio è qualcosa che si costruisce nel corso di tutta la vita a partire dai primi anni; esso è indispensabile per la costruzione della stima di sé. Due persone che hanno vissuto le stesse situazioni difficili di vita, potrebbero averle vissute in maniera completamente diversa e, in genere, le vive meglio chi ha dei punti di riferimento, chi al di fuori sa di avere degli amici che contano su di lui, chi ha una notevole stima di sé, chi ha una visione abbastanza ottimistica nella vita per cui pensa che le difficoltà, per quanto gravi, possano essere superate. Chi invece non è riuscito nel corso della vita a maturare una personalità tale, allora pensa di non poter fare nulla in prima persona, perché secondo lui è l'ambiente che decide e che regola la vita degli individui.
Quindi c'è bisogno sempre e comunque dell'appoggio di un'altra persona?
OLIVERIO FERRARIS: In effetti chiunque dovrebbe avere sufficiente sicurezza in sé stesso per riuscire a fronteggiare le difficoltà da solo pur sapendo che da qualche parte ci sono delle persone che la pensano come lui. Crescendo l’individuo interiorizza una serie di sicurezze e di conoscenze della realtà, tali da spingerlo all’elaborazione di strategie di comportamento valide.
 Lei nel Suo libro ha scritto che le donne tendono a manifestare la paura più degli uomini. Perché accade questo e come cambiano le paure dall'uomo alla donna?
OLIVERIO FERRARIS: Si, per una questione in gran parte di tipo culturale. Mentre la donna, fin da bambina, può manifestare le proprie paure senza che scattino, da parte del gruppo, meccanismi inibitori, lo stesso non si può dire per il maschio che deve invece celare le proprie paure, viverle e risolverle in silenzio perché questo è indice di forza.
Ciò nonostante non significa che gli uomini non vivano delle emozioni; hanno soltanto imparato a non manifestarle, perché questo sarebbe una prova di debolezza. In questo senso direi che le donne sono più avvantaggiate perché, oltre che poter esprimere le proprie emozioni liberamente, possono parlarne liberamente per superarle.
In molti casi potrebbe essere anche l'ignoranza una delle cause della paura?
OLIVERIO FERRARIS: Si. È il caso di chi, trovandosi di fronte ad una situazione complessa, non ha elementi per risolverla, perché sin da piccolo non gli sono stati insegnati dagli educatori. Ecco, che, subentrano allora le superstizioni. Malinowski, a proposito di una popolazione di pescatori, racconta che quando essi andavano a pescare in laguna adottavano appropriate tecniche di pesca, mentre, prima di andare in alto mare, facevano dei riti magici. Questo accadeva perché non avevano una tecnica in grado di fronteggiare quel tipo di ambiente e dunque contavano sul fato, sulla superstizione. È qui che gioca l’ignoranza.
Secondo Moravia la coscienza è paura, l'incoscienza è coraggio. Lei è d'accordo con questa affermazione?
OLIVERIO FERRARIS: No. Non sono d'accordo. A mio avviso l'incosciente non è coraggioso, ma una persona che non vede il pericolo e per questo rischia molto. Potrebbe anche andargli bene, ma allora, anziché contare sulla ricerca della soluzione di quel pericolo, si affida alla fortuna che, però, non sempre è dalla nostra parte.
Si può dire che per l'individuo, crescendo, la paura diventi sempre più astratta? Per esempio il bambino, quando è piccolo, ha paura del fuoco perché sa che, se si avvicina, si scotterà, quindi sentirà dolore. L’adulto invece ha paura del suo futuro?
OLIVERIO FERRARIS: In un certo senso è così. Ogni età ha le sue paure. Il neonato alla nascita ha paura dei rumori forti, del dolore, ma non del buio, perché viene da un luogo buio. Avrà paura del buio intorno ai due, tre anni, perché si sarà abituato alla differenza luce/buio, dunque capirà che al buio ha un minore controllo della realtà. Quindi ha la paura non del buio, ma nel buio. Un bambino di due o tre anni non ha ancora paura dei mostri, perché non ha abbastanza fantasia per rappresentarseli, mentre un bambino di quattro o cinque anni incomincia già a avere paura dei fantasmi, dell'uomo nero e così via. A quattro o cinque anni incomincia a sentire parlare di morte e comincia a farsene una prima idea, soprattutto in caso di morte di una persona che lui conosce o anche di un animale a lui caro. A sette o otto anni può cominciare ad avere paura degli incidenti, dei ladri, oppure delle punizioni. Un adolescente invece sviluppa paure inerenti al suo rapporto con gli altri. Egli deve essere più autonomo, deve fronteggiare tutta una serie di situazioni sociali, spesso ha paura di fare una brutta figura in determinate occasioni. Si tratta di paure sociali per un ambiente che ancora non controlla bene, perché anche in questo ambito bisogna acquisire delle competenze. E man mano che si va avanti si impara. Più si conosce, in genere, più la paura diminuisce. Maggiore è la conoscenza e minore è la paura. L’esperienza insegna, anche se talvolta è traumatizzante. Prendiamo il caso di un individuo che ha assistito ad una rapina. È probabile che egli sviluppi un trauma per rimuovere il quale si debbano mettere in atto alcune tecniche specifiche. Perché questa è un'altra caratteristica della paura: più si lascia passare il tempo, più c'è il rischio che s'ingigantisca a causa della nostra immaginazione. È questo che ci differenzia dagli animali, perché mentre loro vivono nel presente rispondendo istintivamente a uno stimolo, noi, in più, abbiamo la capacità di rielaborare mentalmente le esperienze, di collegarle tra loro o, come nell’esempio, di ingigantire un problema.
Il filosofo Heidegger dice che l'angoscia è la disposizione fondamentale che ci mette di fronte al nulla. Secondo Lei qual'è la differenza tra angoscia e paura?
OLIVERIO FERRARIS: L’angoscia è qualcosa di molto diffuso che dipende dalle paure di natura esistenziale. Per esempio, se io ho paura dell’aereo usufruirò, per viaggiare, di un altro mezzo di trasporto, se ho paura dei luoghi chiusi o troppo affollati, preferirò quelli all’aria aperta. Queste sono strategie. Però, se, la paura è nella mia psiche, come la paura costante della morte e del pericolo in generale, allora è incontrollabile e, per questo, nessuna strategia sarà in grado di eluderla. L’unica via d’uscita potrebbe essere quella di convogliare questo tipo di paure su un unico aspetto dell'esistenza, in modo da poterlo controllare e quindi risolverle. 
Vedere rappresentata in televisione la paura della morte può avere su di noi un effetto catartico oppure no?
OLIVERIO FERRARIS: Spesso la rappresentazione cinematografica e anche teatrale della paura serve a far uscire fuori le nostre, a liberarcene. Se le paure sono lì, non sono dentro di me. Dipende dalla capacità dell’artista di renderla catartica. In genere tutti questi film sulla paura, questi film horror, vogliono avere un po' questa funzione. Una persona si specchia nelle proprie paure, però intanto è seduto in una poltrona, sa che non gli può succedere niente, poi esce e si libera. Purché la rappresentazione di queste paure non sia eccessiva e con dei tagli terrificanti, altrimenti alcune persone potrebbero rimanere traumatizzate o addirittura praticarla per sortirne gli effetti in prima persona. È sempre una questione di misura. Per questo, dicevo, dipende dalla capacità del regista.
La psicoterapia cerca di aiutare l'individuo a superare le proprie paure, ma con quali metodi?
OLIVERIO FERRARIS: Ci sono vari metodi. Intanto bisogna vedere se è una paura localizzata e superficiale, legata a un trauma specifico oppure se è una paura di tipo esistenziale, più profonda. Nel caso in cui si cada da cavallo e si abbia paura di rimontare in sella, la terapia è abbastanza facile, perché ci si riavvicina al cavallo, con cautela, senza però lasciar passare troppo tempo. Se invece, dietro a quella paura, che sembra specifica, c'è un problema esistenziale, un'insicurezza di fondo, una mancanza di autostima, allora si ha a che fare con un problema più grave e dunque la terapia psicologica consisterà nel risalire all’origine di questo stato di crisi.

lunedì 13 maggio 2013

LEZIONE UNIVERSITA' DELLA LIBERA ETA' a cura di LUCIANO RAPA


Francavilla al Mare, lezione sul "Ciclo di vita della famiglia"


L’Università libera età presenta martedì 14 Maggio (ore 16:00) presso il Mu.Mi (Piazza San Domenico, 1) una lezione sul "Ciclo di vita della famiglia", tenuta dalla Dottoressa Ivana Siena, associata Motus. Nell’incontro si affronteranno tutte le fasi cruciali che un individuo incontra nel suo cammino esistenziale in relazione al trascorrere del tempo e ai meccanismi che si instaurano con il partner e con gli altri membri del nucleo familiare destinati a riverberare i suoi effetti sul singolo soggetto (scelta del partner, matrimonio, nascita del primo figlio e sua adolescenza, svincolo del figlio dalla famiglia d'origine e vecchiaia). Psicologa e Psicoterapeuta ad orientamento Sistemico Relazionale, Responsabile del Centro di Psicoterapia Familiare, la Dott. Siena collabora con il Centro PSY - Psicologia Applicata di Pescara e svolge attività di coordinamento e tutoraggio nell'Associazione Obiettivo Famiglia Onlus. “L’obiettivo della lezione è quello di fornire conoscenze sulle fasi del ciclo vitale della famiglia con particolare attenzione ai momenti critici di cui sono composte e alle possibili risorse familiari da attivare”, dichiara la docente. “La famiglia è un sistema vivente, un’organizzazione di persone in continua crescita e cambiamento, impegnate reciprocamente a portare a termine i diversi compiti di sviluppo nel corso della vita. È proprio l’assunzione di precise responsabilità e compiti di sviluppo che consente alla famiglia di far fronte alla riorganizzazione dei ruoli di ogni membro al suo interno”. La lezione avrà ingresso aperto e nessun costo dunque per i partecipanti.

Luciano Rapa




sabato 11 maggio 2013

PATTO CONIUGALE


Il patto coniugale




La relazione si fonda su un patto fiduciario tra le due persone in cui si dà risalto all’intimità tra i partner che diventa struttura fondamentale della vita insieme ( per intimità intendiamo la capacità di entrambi di manifestare all’altro ciò che pensa, prova e sente, aspettandosi di ricevere empatia, comprensione, condivisione e sostegno).
Il patto coniugale si fonda attraverso la costituzione della realtà condivisa ( condividere il tempo, le emozioni, le esperienze etc con un approccio dinamico ed empatico) mediante un sistema di credenze condiviso e con una costante coscienza della realtà e la pianificazione del futuro, ovvero il progetti di vita insieme.
Gli elementi che costituiscono il patto coniugale sono:
1)   La comune attrattiva: forte sensazione di essere attratti dall’altro per le sue caratteristiche fisiche e sessuali;
2)  La consensualità: conformità di voleri ed opinioni che si traduce nell’approvazione reciproca;
3)  La consapevolezza: entrambi i partner devono essere coscienti dei voleri morali che ispirano l’altro;
4)  L’impegno a rispettare il patto stesso: ciò richiede una comunicazione sincera, simmetrica e complementare;
5)  La delineazione di un fine: il risultato a cui mira la coppia.

Esistono due tipi di patto coniugale:
1)   Patto Dichiarato ( esplicito ): è una dichiarazione di impegno nella relazione, formulata esplicitamente e pubblicamente ( la formula che si recita durante la cerimonia del matrimonio) e che richiama la valenza etica del vincolo reciproco.
2)  Patto Segreto ( implicito ): esso si trova racchiuso in una linea di confine tra il conscio e l’inconscio di ogni membro della coppia; è un intreccio inconsapevole, su base affettiva, della scelta reciproca e può essere definito come un incastro di bisogni, desideri, paure, speranze. La natura di tale patto trova origine nella storia pregressa dei partner e nei modelli genitoriali assorbiti da ognuno di loro.
Il patto segreto può essere:
a)   Praticabile: attraverso la loro unione i partner soddisfano bisogni ed affetti reciproci; questo risulta flessibile perché può essere riformulato secondo il mutamento dei bisogni affettivi e delle attese delle persone lungo il percorso di vita. Ha quindi una funzione adattiva e permette di fronteggiare e superare le crisi coniugali.
b)  Impraticabile: in questo caso il patto segreto non esiste perché l’intesa è nulla e lo scambio è impossibile. Nel patto impraticabile l’altro, nella sua realtà e nel suo bisogno, non viene percepito e il mondo psichico della coppia  costituito da uno sfruttamento reciproco sulla base dei bisogni esclusivamente individuali.
c)   Rigido: lo scambio avviene ma nell’evoluzione dei bisogni reciproci l’intesa segreta si consuma. In questo patto quando si è esaurita la soddisfazione di quella particolare forma di incastro tra i vari bisogni dei partner si genere la corrosione del legame. E’ il caso di coniugi che concentrano tutte le loro risorse e tutti i loro interessi nell’educazione del figlio, tralasciando lo sviluppo del piano coniugale.

Il Patto Dichiarato può essere:
a)   Fragile: se è povero di impegno.
b)  Formale: se si basa su delle regole e su una rigida contrattualità.
c)   Assunto: se interiorizzato adeguatamente da un punto di vista cognitivo ed affettivo.

Il modo in cui la coppia riesce a superare gli eventi critici dipende dalla confluenza tra il patto dichiarati e il patto implicito:
·        Quando il patto dichiarato è assunto e il patto segreto è praticabile la coppia funzione in maniera creativa e riesce a superare positivamente le avversità;
·        Quando  il patto dichiarato è formale e il patto segreto è impraticabile la coppia vive in un forte disaccordo: vi è un clima di insoddisfazione e di ingiustizia perché i bisogni che i due partner sperano di soddisfare reciprocamente vengono costantemente disattesi;
·        Quando il patto dichiarato è fragile e quello segreto è impraticabile la coppia vive in una situazione di deprezzamento;
·        Quando il patto dichiarato è formale e il patto segreto è rigido vi è il rischio del crollo del patto;
·        Quando il patto dichiarato è fragile e quello segreto è rigido vi è il rischio della povertà del patto e quindi del legame.

Scogliere il patto dichiarato ( attraverso la separazione o il divorzio) non sempre porta a scogliere il patto segreto. A tal proposito Cigoli parla di “legame disperante”: un membro della coppia non riesce a smettere di credere in quel legame oppure uno dei due cerca di scrollarsi di dosso l’altro, di annullare la sua presenza, negando la storia e la propria partecipazione alla stessa.


 CENTRO DI PSICOTERAPIA FAMILIARE

IL CENTRO




sabato 4 maggio 2013

BENESSERE


VOGLIO COMINCIARE A PRENDERMI CURA DI ME…


Ma cosa significa effettivamente? Il modo in cui una persona si prende cura di sé testimonia la stima che ha nei confronti di se stessa.
Certe persone credono che prendersi cura di sé soprattutto significhi fare un bagno caldo con una bella musica ed una candela profumata, in verità è un concetto che si lega al rispetto di sé, della propria persona, al riconoscere il proprio valore,  i propri limiti e volerli superare facendo tutto il possibile per migliorarsi. Significa imparare a dire NO, concedersi il diritto di essere se stessi, soddisfare i propri bisogni affettivi, fare un lavoro che offra piacere, motivazione, valorizzazione, sono tutti modi per prendersi cura di sé.
Uscire da una relazione in cui ci si sente giudicati, dire a qualcuno che i suoi atteggiamenti ci feriscono, allontanarsi da certe persone, sono tutti modi per prendersi cura di sé.
Prendersi cura di sé non significa seguire i propri impulsi sconsideratamente, significa riflettere, riconoscere le proprie esigenze, i propri bisogni e soddisfarli adeguatamente.

SIPEM SoS MARCHE

La psicologia dell'emergenza si rivolge

alle persone colpite da una catastrofe, da un

lutto, da un trauma, ma anche ai soccorritori,

cioè alle persone che intervengono per

prime e che, assieme ai sopravissuti,

sperimentano sentimenti di impotenza,

angoscia, ansia, disperazione.

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mercoledì 1 maggio 2013

FESTA DEI LAVORATORI


La perdita del posto di lavoro o il fallimento della propria attività, il proprio percorso professionale che si è costruito e maturato nel tempo, non genera conseguenze negative solo a livello economico. Dietro la perdita dell’occupazione si nasconde un ‘male oscuro‘ che talvolta è difficilmente ravvisabile o che spontaneamente il soggetto coinvolto non riesce a portare alla luce. Quali sono le conseguenze a livello emotivo e psicologico di chi si trova ad affrontare una perdita professionale, che rappresenta una porzione fondamentale del nostro vissuto?

E' stato chiesto a Pier Giovanni Bresciani, Presidente SIPLO, la Società Italiana di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione, e docente delle Università di Bologna e di Genova, quali sono le reazioni più frequenti e i campanelli dall’allarme da non sottovalutare, e in che modo le persone vicine possono offrire una forma di supporto a chi ha subito la perdita del proprio lavoro.
A livello emotivo, quali sono le conseguenze generate dalla notizia della perdita del lavoro?
L’esperienza della disoccupazione, quanto più è involontaria, inaspettata e subìta, provoca generalmente, in chi ne è suo malgrado protagonista, emozioni e sentimenti di grande intensità e di segno ‘negativo’, che sono il risultato di un ‘lavoro cognitivo’ (in genere inconsapevole) che le persone fanno in relazione a sé stesse, giungendo in qualche modo ad attribuirsi la responsabilità principale, se non esclusiva, di ciò che è loro accaduto: possono così manifestarsi comportamenti riferibili a scarsa fiducia in sé stessi, ansia ed anche angoscia, a senso di colpa, vergogna.

A lungo termine quali sono le reazioni più frequenti nei soggetti inoccupati?
Il senso di fallimento e di sconforto generale che si accompagna alla perdita del lavoro può condurre a un progressivo vissuto di impotenza e a una sorta di abbattimento generale, per cui diventa difficile sforzarsi di agire o anche solo pensare di dover reagire ‘in qualche modo’: come ha osservato già molto tempo fa il sociologo Lazarsfeld, il rischio è quello di un atteggiamento apatico. L’esperienza della disoccupazione può poi provocare anche comportamenti di aperto rifiuto e non accettazione, alimentando atteggiamenti di ostilità e aggressività: in certi casi si tratta di una strategia più o meno consapevole per ‘distogliere da sé’ il sospetto di essere il colpevole della situazione; in altri casi invece si tratta della ‘razionale’attribuzione ad altri (le persone più vicine e significative; le organizzazioni con cui si è in rapporto; le istituzioni di governo e tutela) della causa della disoccupazione, e quindi delle conseguenze negative che si stanno sperimentando.

La perdita del lavoro può provocare anche disturbi psicosomatici o alterare lo stato di salute? 
La disoccupazione, come altri eventi della vita particolarmente stressanti (life events),  quanto più sia prolungata nel tempo e venga affrontata con la percezione di non disporre di adeguate risorse e di adeguato supporto, può avere un impatto pesante anche sulla salute psicofisica. Le conseguenze più frequenti riguardano fenomeni di insonnia, di mancanza di appetito, fino a e vere e proprie sindromi psicosomatiche che possono anche sfociare in patologie gastriche o cardiovascolari, magari aggravate da comportamenti quali il fumo o l’assunzione di alcool, psicofarmaci o sostanze stupefacenti. Non vanno poi sottovalutati a livello familiare, i conflitti e le crisi di coppia e nei rapporti con i figli: tali atteggiamenti sono infatti l’effetto, da un lato del peggioramento della qualità di vita del disoccupato, ma dall’altro anche del clima di insicurezza, di preoccupazione e di conflitto che chi ha perso il lavoro vive quotidianamente.
Come possono intervenire le persone vicine al soggetto disoccupato?
Sono due i ‘circoli viziosi’ pericolosi e da evitare per chi perde il lavoro: da un lato quello ‘tutto interno’ auto-colpevolizzante, fatto di ‘ruminazione’ sulle proprie responsabilità, sfiducia in sé e negli altri, vergogna, isolamento sociale e chiusura relazionale, apatìa, mancanza di progettualità e di iniziativa, incapacità di ‘pensare il futuro’; e dall’altro, all’opposto, quello ‘tutto esterno’ deresponsabilizzante, fatto di ricerca di un capro espiatorio, lamentazioni continue, accuse e conflitti permanenti. Il compito delle persone vicine, dalla famiglia agli amici, riguarda proprio queste aree di intervento: dalla ricostruzione della fiducia in sé stessi,  all’offrire luoghi di ‘rielaborazione’ e di ‘contenimento’ dell’esperienza, far si che il disoccupato riconosca il problema della disoccupazione senza negarlo, ma anzi condividendolo con altri che vivono lo stesso tipo di esperienza. E’ importante stimolare il soggetti a  mantenersi informato sulle opportunità di lavoro fruibili, oltre che ad utilizzare tutte le risorse professionali e socio-istituzionali disponibili, ma anche intraprendere corsi d’azione che consentano di ricostruire e valorizzare le proprie esperienze, competenze e risorse.

 Fonte: infoiva.com