domenica 28 luglio 2013

PSICOLOGIA DELLO SPORT

Ripartire dopo un fallimento


Il fallimento è l’opportunità di ricominciare in modo più intelligente” diceva Harry Ford. Ogni partita persa è un fallimento, ogni goal subito fa male come un’umiliazione personale. Durante una partita di calcio il sudore conferma che il corpo ce la sta mettendo tutta e la speranza continua a vivere; un’occhiata  fugace al compagno più vicino, uno sguardo all’orizzonte per trovare una nuova strategia di gioco, l’orecchio sempre rivolto verso la panchina, ma le esclamazioni del pubblico sentenziano che tu e il tuo gruppo non ce l’avete fatta. Anche i cori disperati di incoraggiamento hanno un’enfasi diversa. È  scontato pensare che per trasmettere sicurezza a chi è intorno bisogna credere prima in se stessi e di conseguenza nella propria strada.
Uno dei problemi delle sconfitte ripetute ha a che fare con il concetto che il calcio, prima che un lavoro è una passione. Questo implica una ridotta obiettività e l’impossibilità di vedere chiaramente che ci si avvia verso la tragedia. Accade quindi che si arriva ad ogni partita sempre più impauriti ma fiduciosi che la vittoria si affidata ad una casualità di eventi, ci si aspetta comunque un buon risultato, pur sapendo che non si è alla sua altezza. Lo fanno i calciatori e lo fanno i tifosi dentro e fuori i recinti degli stadi. Ma questa costanza nel pensiero non paga e quando se ne raggiunge la consapevolezza il campionato è già compromesso.
Un altro dei problemi del fallimento è che generalmente non viene riconosciuto come un evento momentaneo, seppur ripetuto a distanza ravvicinata. Ciò significa che è abbinabile al concetto di crisi come evento destabilizzante in cui bisogna mettere in campo ogni risorsa disponibile per tornare ad un equilibrio, tanto più se l’obiettivo ha una grossa valenza socialmente riconosciuta ed emotivamente coinvolgente come la vittoria. Questa chiave di lettura vedrebbe aprirsi una grande quantità di nuove possibilità, capire gli errori commessi ad esempio, provare a correggerli e a migliorarsi, studiare nuove strategie per potenziare il lavoro e la rete che c’è intorno. Infatti una squadra di calcio è solo una parte della trama che la circonda, un giocatore è un filo della trama come lo è la dirigenza e la tifoseria. Se uno di questi elementi si indebolisce e si spezza, la smagliatura diventa visibile e assomiglia quasi a una ferita, se non si prova a ricucire la rete il sistema cade ed il fallimento diventa una etichetta persistente.
Chiedersi perché gli insuccessi sono così numerosi in un sistema che, in generale, fino a poco tempo prima risultava vincente, trova la sua risposta nella difficoltà del compito e nel confronto con realtà concretamente più avanzate. Il punto focale non è risalire alle cause, ma calciare la palla dal “senso di frustrazione ed impotenza” “all’accettazione dei propri errori”,  per riprendere il controllo di sé, delle proprie capacità e del talento individuale e di squadra. I due protagonisti della gara finale sono quindi  demoralizzazione vs rinascita, che si muovono sotto i riflettori puntati in direzione dell’una o dell’altra porta. Tutti gli esseri viventi cadono, persino i serpenti, che sono notoriamente attaccati al terreno, possono cadere qualora striscino su un albero e si lascino affascinare dai suoi rami, il punto è come rialzarsi. Il calcio è fatto di persone, di talenti in pantaloncini e uomini in completo scuro che sembra abbiano nelle loro tasche la chiave della vittoria, ma comunque ed inevitabilmente persone.
La verità è che la svolta sta proprio nell’accettazione del fallimento e nel dignitoso tentativo di reinventarsi come giocatore, come squadra, come bandiera. La soluzione sta nel termine “resilienza” che è la capacità, individuale e collettiva, di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici e di riorganizzare la propria vita, in questo caso il proprio impegno, dinanzi alle difficoltà. Ricostruirsi quindi, restando sensibili alle opportunità della vita e vivere ogni fallimento come un insegnamento. Se quest’ultimo viene inserito nel computo del progetto, riconosciuto ed affrontato allora le ferite dovute alla caduta rimargineranno più in fretta e si potrà ricominciare a correre.

 dott.ssa Ivana Siena

sabato 27 luglio 2013

PSICOLOGIA DELLO SPORT

Appartenenza e integrazione per una squadra vincente
La maglia è il cuore della divisa di un calciatore, anche se nel corso della carriera può cambiare con frequenza. Non c’è giocatore, quindi, e non c’è squadra di calcio che non debba confrontarsi con il senso di appartenenza al gruppo e ai suoi colori. Si impara ad appartenere ad un gruppo, ad un sistema, già dalla nascita e ancor prima, quando non si conoscono i volti delle persone che ti parlano di amore e aspettative al di là delle pareti di quel grembo materno che si occupa di nutrirti senza troppe pretese. Così accade nel calcio a cominciare dalle categorie agonistiche. Le partite vengono giocate su campi ridotti, adatti all’età di riferimento ed il confronto è tra pari, per età e capacità. L’uguaglianza tra i membri del gruppo è una condizione che favorisce l’appartenenza e permette il nascere di una sana competizione mirata più che altro a coltivare il proprio talento.
Nella composizione di squadre di alto livello il processo di accorpamento dei giocatori è artificiale ed è dettato da regole implicite ed esplicite, non sempre condivise. La dimensione del gruppo è uno dei pochi elementi costanti come anche i ruoli definiti già a priori nella scelta dei giocatori appartenenti ad una presupposta formazione vincente. Altri elementi sono invece variabili ed influenzano le dinamichedel gruppo squadra. Nella rosa di una squadra il numero di protagonisti varia a seconda delle disponibilità economiche della società. E vi è la possibilità che vi siano più giocatori per lo stesso ruolo ed ogni reparto può contare su titolari e più riserve. La diversa pressione provata dai due membri dalla stessa funzione, può portare ad una percezione di maggiore o minore efficienza che può condizionare le relazioni all’interno del gruppo, oltre che l’impegno profuso.
Definirsi come gruppo, o come membri di una certa categoria sociale non basta per parlare di appartenenza, è necessaria una percezione collettiva di riconoscimento di similitudini e scopi comuni e accettazione delle differenze. La differenza per eccellenza è dettata dalla presenza di etnie multiple e dalla multiculturalità dei giocatori. Le difficoltà concrete si vedono in primis nello scambio verbale infatti, che inizialmente rappresenta un limite, per quanto superabile attraverso i training linguistici a cui sono sottoposti i calciatori di nazionalità diverse. L’impossibilità a comprendere l’indicazione dell’allenatore, i cori dei tifosi durante la gara, i commenti tra compagni nello spogliatoio, l’interpretazione del significato di una parola che nella lingua ospite può avere più accezioni, la fugace istruzione del collega durante la partita, sono tutti esempi di questo confine di diversità che può diventare una barriera relazionale. Dall’altro lato emerge la necessità dell’accettazione dello “straniero”, processo rallentato dalla categorizzazione sociale che rischia di sfociare in comportamenti ostili nei confronti del nuovo arrivato.
Appartenere ad una squadra significa riconoscere come proprie caratteristiche nuove senza mai perdere il significato delle proprie origini, delle proprie radici. Quest’ultimo è un concetto ben saldo nel pensiero dell’Athletic Bilbao, che ha costruito negli anni una squadra interamente composta da giocatori di origine basca, conservando intatte tutte le tradizioni e i colori che le hanno dato il prestigio di cui gode tutt'ora.  È una concezione alternativa di appartenenza molto forte che può essere mal interpretata come discriminazione o addirittura razzismo, ma che rappresenta la peculiarità di questa squadra.
Perché ogni membro della squadra si senta davvero parte di questa entità bisogna che ci sia una percezione di sostegno reciproco, la certezza che si abbattano pregiudizi basati su stereotipi e quella che viene chiamata interdipendenza positiva, ossia la condivisione di uno scopo sovraordinato che non può essere raggiunto singolarmente ma soltanto attraverso la cooperazione reciproca.
“L'appartenenza non è un insieme casuale di persone non è il consenso a un'apparente aggregazione l'appartenenza è avere gli altri dentro di sé. […] Non è un insieme casuale di persone non è il consenso a un'apparente aggregazione. […] L'appartenenza è un'esigenza che si avverte a poco a poco si fa più forte alla presenza di un nemico, di un obiettivo o di uno scopo è quella forza che prepara al grande salto decisivo che ferma i fiumi, sposta i monti con lo slancio di quei magici momenti in cui ti senti ancora vivo. Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi”. (G. Gaber)

 dott.ssa Ivana Siena

venerdì 19 luglio 2013

ESPRIMERSI NEL GIOCO

CHE COS'È IL GIOCO SIMBOLICO?



Il gioco svolge un ruolo chiave nello sviluppo del bambino dal punto di vista cognitivo, affettivo e sociale.  Nel gioco spesso il bambino imita ciò che accade nella realtà “facendo finta di”: oggetti, azioni, situazioni presenti vengono utilizzati come simboli per rappresentare qualcosa che non è presente ma che si può immaginare. Questa fase, che compare nel secondo anno di vita, si chiama gioco simbolico ed evidenzia le capacità di rappresentazione dei bambini (Bornstein, O’Reilly, 1993).
Durante il secondo anno di vita, in cui i bambini cominciano a concettualizzare relazioni astratte tra i simboli e i referenti della vita reale, il gioco diventa una modalità fondamentale di rappresentazione mentale.
Piaget (1962) ha posto in stretta relazione il gioco e lo sviluppo cognitivo dei bambini. Il bambino nel primo anno di vita manipola un oggetto alla volta e mette in atto comportamenti riguardanti la sfera sensomotoria. Questo tipo di gioco si chiama esplorativo o non simbolico perché consente di raccogliere informazioni sugli oggetti e sulle loro qualità percettive. Man mano il bambino mette in  atto comportamenti più avanzati manipolando parti di oggetti o giustapponendo due o più oggetti per osservare la relazione.
Durante il secondo anno di vita le azioni di gioco diventano ancora più complesse coinvolgendo oggetti che a loro volta possono diventare altri oggetti, come un cubo che diventa una torre. Il gioco diventa così simbolico o di rappresentazione, perché costituisce un mezzo per mettere in atto delle scene simboliche. Secondo la teoria di Piaget il gioco segue uno sviluppo sequenziale ordinale, l’azione e l’esplorazione sono alla base della conoscenza e il gioco simbolico passa da una modalità che coinvolge solo se stesso, come far finta di dormire, a un gioco che coinvolge gli oggetti, come far finta che la bambola mangi.
Lo sviluppo del gioco simbolico avviene secondo cinque stadi di livello:
·         Gioco di passaggio: ossia un’approssimazione di simbolizzazione, come portare il telefono all’orecchio senza parlare;
·         Gioco simbolico diretto a sé: come fingere di dormire;
·         Gioco simbolico diretto ad altri: come abbracciare la bambola;
·         Sequenza di giochi simbolici: come fare il numero e telefonare;
·         Simbolizzazione sostitutiva: quando vengono coinvolti uno o più oggetti sostitutivi, ad esempio usare il cubetto come cornetta e parlare al telefono.
Nel corso del terzo anno di vita, le capacità di mettere in atto delle azioni di gioco più complesse vengono consolidate e messe in atto più frequentemente.
Inoltre, Vigotskij (1978) ha concepito il gioco simbolico non più come un’attività solitaria che evidenzia gli schemi del bambino che già possiede, ma come un’attività formativa che avviene attraverso l’interazione tra il bambino e i genitori (Smolucha, Smolucha, 1998). Perciò lo sviluppo del gioco nel bambino avviene anche grazie all’interazione con l’adulto attraverso l’interazione e rispondendo alle sue richieste. Egli ha enfatizzato il ruolo dell’interazione per lo sviluppo cognitivo attraverso il concetto di zona di sviluppo prossimale, che indica lo spazio che consente di innalzare il livello di risoluzione dei problemi del bambino sotto la guida di un partner più esperto come la madre, rispetto a una performance spontanea e libera se fosse da solo. Quindi l’adulto svolge un ruolo di supporto (scaffolding) per lo sviluppo del bambino fino a quando quest’ultimo non ha appreso specifiche abilità che gli consentiranno di essere autonomo. Per questa ragione il gioco consente al bambino di transitare nellazona di sviluppo prossimale, mediante la quale si realizza una anticipazione dello sviluppo. L’apprendimento è possibile attraverso relazioni significative che costituiscono una specie di impalcatura, che sostiene il bambino, il quale costruisce attivamente lo sviluppo di nuove competenze che vengono interiorizzate. Vygotskij attribuisce, quindi, importanza all'interazione nel processo di apprendimento, che diventa un elemento strutturante verso lo sviluppo e la crescita del bambino.

 Fonte: dr.ssa A. Cornale davidealgeri.it

venerdì 12 luglio 2013

ARTE E PSICOLOGIA NEL SOGNO

I SEGRETI DI MORFEO



Si è svolto ieri sera, 11 luglio,  l’evento “I Segreti di 


Morfeo”. Arte, musica, cultura e psicologia hanno 


incontrato il pubblico del ristorante Maccherone di 


Pescara per comunicare pensieri, poesie e significati del 


Sogno.




L’artista Giuseppe Calì ha rievocato scritti e poesie che 
parlano del sogno, la dott.ssa Ivana Siena ne ha descritto l’importanza come mezzo per conoscere se stessi, il tutto accompagnato da un sottofondo musicale a cura di Maria Flavia De Carolis.