lunedì 4 febbraio 2013

II PARTE DEPRESSIONE POST PARTUM


Dalla gravidanza all'essere madre



La gravidanza in sé porta la donna a dover affrontare una serie di compiti adattivi e trasformativi che vengono attivati sia dai cambiamenti somatici che da quelli psichici.
Come affermato da Ammaniti nel 1992 (Ammaniti M., “Pensare per due”, Editori Laterza, Roma-Bari, 2008), la stretta relazione tra la dimensione corporea e quella mentale portano la donna a ripiegarsi da un lato su se stessa, ritirandosi in una sorta di fusione mentale con il feto e dall’altro ad identificarsi con una madre che saprà prendersi cura del proprio bambino.
A differenza di altre forme di patologia psichiatrica, in cui le alterazioni del comportamento presentano forme più evidenti, nella depressione post natale non sembra emergere nulla: queste donne sono tormentate da pensieri ossessivi, dal carattere talmente coercitivo da travolgere ogni tentativo di contenimento.
Chi è vicino non si rende conto dell’oscuro malessere che le tormenta e che, nella maggior parte dei casi, viene tenuto sotto controllo ma che, in alcune situazioni, può improvvisamente insorgere, come a seguito di un corto circuito mentale imprevedibile.
Questi casi non sono rari: infatti una donna su dieci durante la gravidanza e nel primo anno di vita del figlio va incontro ad un disturbo depressivo, ben diverso dalla più che normale reazione fisiologica depressiva che si verifica subito dopo il parto.
Non necessariamente un rischio depressivo nella madre determinerà problemi nel suo rapporto con il figlio, dal momento che la nascita di quest’ultimo rappresenterà una grande occasione di cambiamento che spesso favorisce l’acquisizione di una migliore organizzazione psichica.
La sofferenza che queste donne si portano dentro è tale da rendere la gravidanza un peso troppo gravoso per loro. I loro pensieri negativi possono diventare talmente intrusivi da polarizzare quasi completamente il loro mondo psichico; in casi più gravi può accadere che la donna, non vedendo vie di fuga, maturi l’idea del suicidio oppure che arrivi a sopprimere il proprio figlio dopo la nascita, vedendo in tale gesto l’unica possibilità reale di evitargli sofferenze che il futuro, secondo le sue fantasie, gli riserverebbe.
Questi pensieri intrusivi, associati a comportamenti materni potenzialmente violenti, si avvicinano al disturbo ossessivo-compulsivo, dal momento che possono essere legati ai comportamenti di verifica compulsiva messi in atto dai genitori. Le loro idee ossessive ( ovvero idee avvertite come angoscianti che si impongono alla loro coscienza come parassiti e che non possono essere eliminate con la volontà) riguardano pensieri di fare del male al bambino, di poter perdere il controllo, di impazzire o di potersi fare del male.
A partire da alcuni studi condotti da Winnicott, Leckman e collaboratori nel 1999, si è messo in luce che nelle prime due settimane successive al parto, i genitori hanno pensieri insistenti sul figlio: circa il 95% delle madri e l’80% dei padri presenta preoccupazioni riferite allo stato di salute del bambino; nel caso di genitori che aspettano il primo figlio, compaiono anche preoccupazioni riguardanti le modalità di accudimento.
Bisogna anche sottolineare che durante la gravidanza, il 37% dei genitori riporta pensieri insistenti, seppur fugaci, di fare del male fisico al proprio figlio, come scuoterlo, colpirlo oppure buttarlo giù da un edificio.
Il fattore più insidioso della depressione materna è rappresentato dal fatto che, nella maggior parte dei casi, questa non viene riconosciuta e compresa: questo, ostacola e peggiora la condizione materna.
La pressione sociale che la madre depressa si trova a dover affrontare, può essere così forte da produrre in lei sentimenti di vergogna o di colpa, dal momento che non riesce come dovrebbe e come gli altri si aspettano ad essere felice di aspettare o di avere un bambino.
Nel patrimonio della specie umana è profondamente radicata l’idea della capacità di prendersi cura dei propri figli. Questa predisposizione innata è stata descritta nel 1996 da George e Solomon nel costrutto di “caregivingsystem”, in base al quale, a partire dalla prima adolescenza, si comincia a sviluppare un’attitudine genitoriale che potrà realizzarsi pienamente in corrispondenza dell’attesa e della nascita di un bambino.
Nel casi delle madri depresse, però, si assiste alla messa in atto di comportamenti difensivi che Guedeney ha descritto come il paradosso della madre depressa: la donna ritiene di non avere il diritto di sentirsi triste o infelice o depressa in un momento che dovrebbe essere caratterizzato, come detto, secondo il senso comune, da grande felicità e senso di realizzazione; nel momento in cui ella riconosce la propria depressione tende a giudicarsi in termine morali considerandosi una cattiva madre. Di conseguenza, non è in grado di comunicare alle persone a lei più vicine le sue preoccupazioni e finisce per chiudersi in un universo abitato solo da pensieri terribili.
Pertanto, la depressione può interferire con la capacità della madre di prendersi cura del figlio.
La depressione post partum, o PND, rientra in un quadro patologico di gravità media ed è considerata l’espressione più comune della patologia post partum.
Si verifica nel 10% circa delle nascite, è più frequente nelle madri-adolescenti, può durare qualche settimana ma anche qualche mese, posto che una delle sue caratteristiche è un’evoluzione sotto tono che tende alla cronicità.
Se non riconosciuta e trattata può continuare anche dopo un anno dall’esordio e ampliare così in termini indefiniti le ripercussioni negative sul bambino.
Tra le manifestazioni allarmanti della depressione post partum si devono considerare i tentativi di suicidio ( sotto il profilo psicologico) della madre, dei quali, invece, viene fatto oggetto il figlio.
La genesi di tutto ciò è una fantasia (conscia o inconscia) secondo cui il bambino soffre e soffrirà ogni sorta di male, da cui solo la morte potrà salvarlo.
Le dinamiche inconsce del filicidio, in questo caso, implicano la proiezione di sé o, quanto meno, di una parte di sé sul bambino. La morte del bambino implica, alla luce di questa fantasia, il solo modo di eliminare il terrore e al tempo stesso di liberarsi da ciò che genera terrore. 
Dott.ssa Valentina Mossa

Psicologa, laureata  presso l'Università G. D'Annunzio  di Chieti (CH), impegnata nel tirocinio formativo presso l'associazione Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara (PE).