domenica 14 dicembre 2014

ZONA DI SVILUPPO PROSSIMALE





Diverse sono le teorie che hanno cercato di spiegare l’apprendimento del bambino nei primissimi anni di vita e in particolar modo lo sviluppo del linguaggio. Piaget, nella sua Teoria degli Stadi Cognitivi, sostiene che gli sviluppi cognitivo e linguistico passano attraverso una serie di stadi universali e invarianti e sono indipendenti dall’interazione sociale con l’adulto di riferimento.
Bruner ipotizza una base innata per il linguaggio dove adulti e contesto sociale agiscono da sistemi di supporto cosi da favorire l’ingresso del bambino nella cultura di appartenenza e nel mondo del linguaggio.
Vygotsky sostiene, a differenza di Piaget, che lo sviluppo linguistico-cognitivo del bambino sia correlato alla quantità e alla qualità delle interazioni sociali con l’adulto. Concetto fondamentale nella sua Teoria Socioculturale è quello di Zona di Sviluppo Prossimale(zdsp) intesa come la distanza tra il livello attuale di sviluppo, cosi come determinato dal problemsolving autonomo, e il livello più alto di sviluppo potenziale, cosi come è determinato attraverso il problemsolving sotto la guida di un adulto o in collaborazione con i propri pari più capaci (vedi video consigliato alla fine del testo per un esempio pratico di zdsp).
Una dimostrazione di zdsp è l’episodio di rievocazione dove l’adulto aiuta il bambino a ricordare esperienze precedentemente vissute fornendo suggerimenti e accenni. L’apprendimento all’interno della zdsp è possibile in parte grazie all’esistenza dell’intersoggettivitàovvero un modo comune di vedere le cose che si basa sull’esistenza di un punto su cui concentrare l’attenzione e una meta che il bambino e la persona più competente condividono tra loro. Le persone esperte quindi , gli adulti o coetanei più capaci, sostengono temporaneamente le abilità emergenti del bambino per poi lasciare che faccia da sé.
Ritorniamo al linguaggio e alle sue varie fasi di sviluppo. Il bambino per imparare ad utilizzare il linguaggio deve compiere varie operazioni preliminari tra cui: segmentare i suoni linguistici che ascolta, ampliare il vocabolario, padroneggiare le regole morfo-sintattiche della propria lingua ecc. Per poter eseguire tutto ciò ha ovviamente bisogno di assistenza, di un aiuto che solo un adulto o una persona più capace può dargli. Quindi senza una zona di sviluppo prossimale, ovvero uno spazio di interazione bambino-adulto, lo sviluppo linguistico, cosi come quello cognitivo-comportamentale non potrebbero avere luogo.
Ma come avviene lo sviluppo comunicativo-comportamentale nei bambini con sviluppo atipico?
Prendiamo ad esempio i bambini affetti da sindrome di Down. Questi bambini hanno difficoltà nella produzione vocale che compensano con un maggior ricorso all’uso dei gesti. Inizialmente il ricorso alla produzione vocale e ai gesti è equilibrato e simile a quello dei bambini con sviluppo tipico; con l’andare avanti dell’età però la produzione vocale diviene scarsa e meno frequente e si associa a un uso più massiccio di gesti. L’adulto in questo caso punterà sui comportamenti manifesti nei momenti di attenzione condivisa, quindi nei momenti in cui può agire influenzando positivamente il bambino nel raggiungimento di uno scopo (nella zona di sviluppo prossimale appunto). I bambini con autismo non riescono a “sfruttare” i momenti di attenzione condivisa con l’adulto non alternando lo sguardo tra il partner e l’oggetto/evento in questione. Questi bambini inoltre non guardano il volto dell’adulto per capire come comportarsi in una situazione ambigua e in loro è carente la capacità di usare l’intenzione dichiarativa ovvero non riescono a usare un gesto comunicativo, come può essere il semplice gesto di indicare, per attirare l’attenzione dell’adulto verso un oggetto o un evento esterno alla diade.
Sono state diverse le ricerche che hanno indagato su come i genitori di bambini con sviluppo atipico dialogassero con questi ultimi. L’obiettivo comune di queste ricerche era rispondere al seguente quesito: l’esperienza linguistica di cui usufruiscono i bambini con sviluppo atipico è uguale a quella che si rileva per i bambini con sviluppo tipico? I genitori dei bambini che presentano disabilità di vario tipo tendono ad essere più direttivi e meno responsivi dei genitori dei bambini con sviluppo tipico. Il genitore vede l’interazione con il proprio bambino come una << seduta didattica >> quindi fa largo uso di ordini e istruzioni. Le madri dei bambini con ritardo mentale utilizzano inoltre un linguaggio più semplice a livello sintattico. Uno studio di Longobardi e Caselli degli anni 90, ha confrontato lo stile comunicativo delle madri di bambini con sindrome di Down con quello delle madri con bambini con sviluppo normale della stessa età linguistica. Le madri di bambini con sindrome di Down indirizzano un numero inferiore di iniziative comunicative ai propri bambini e di conseguenza utilizzano meno frequentemente tutte le funzioni comunicative (tutoria, didattica, etc...). Queste madri non hanno però mostrato una preferenza per uno stile comunicativo direttivo. Uno studio di Nelson e collaboratori ha evidenziato come le madri di bambini con DSL (Disturbo Specifico del Linguaggio) usano meno le espressioni semanticamente collegate agli enunciati del bambino (esempio: il bambino dice “Luca macchina” e la madre risponde “Luca ha la macchina”).
Cross et al. hanno invece confrontato il livello di capacità di comprensione verbale dei bambini sordi e dei bambini udenti. Il campione era composto da un gruppo di bambini sordi di cinque anni di età (1) , un gruppo i bambini sordi di due anni di età (2) ed uno di bambini udenti di due anni (3). Si è riscontrato che i bambini del gruppo 1 avevano una capacità di comprensionesimile ai b. del gruppo 3 e che i bambini del gruppo 2 avevano capacità di comprensione simile ai b. di pochi mesi di vita. Le madri dei b. sordi utilizzano un linguaggio molto semplificato essendo consapevoli del deficit dei loro bambini. Per i bambini udenti la modalità più efficace per attivare la loro attenzione è quella verbale, per i b sordi risulta invece essere quella di “segnare” il loro spazio visivo. Uno studio di Anderson sui bambini ciechi ha evidenziato che i genitori: usano più frequentemente frasi imperative e interrogative del tipo si/no; adoperano frequentemente denominazioni e richieste di denominazioni mentre con i bambini vedenti vengono usate delle ricche descrizioni su oggetti presenti nell’ambiente circostante; i genitori di b ciechi raramente includono nei loro discorsi richieste di espansione al bambino ma piuttosto forniscono a quest’ultimo una seriedi etichette verbali. 
In conclusione da questi studi emerge come un input quantitativamente e qualitativamente diverso da quello di cui usufruisce un bambino con sviluppo normale non necessariamente vuol dire peggiore, potrebbe invece rappresentare l’effetto di un processo di adeguamento per creare condizioni più favorevoli per lo sviluppo dei bambini con sviluppo tipico.

Dott. Renato Porcelli

Laureato in Psicologia e tirocinante presso la Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara 



Video Zona di Sviluppo Prossimale: https://www.youtube.com/watch?v=idrwTS4EG-U

martedì 9 dicembre 2014

LA PAZIENZA


Se invitate la gente a dire che cosa le viene in mente pensando alla pazienza, ottenete risposte del genere: << Una donna rassegnata, un bue, una persona anziana che fa passare il tempo >>. Invece, all’impazienza: << Un giovane vivace, un capo che da ordini in modo imperioso, una donna bella e capricciosa >>. Ci sono poi molti che considerano la pazienza e l’impazienza due qualità innate, come sarebbero il colore degli occhi o la lunghezza del naso. Alcuni addirittura si vantano dell’impazienza del marito o della moglie. << Non riesce a star ferma un momento, non sopporta le lungaggini >> dicono, come se fosse una prova di vivacità intellettuale o di forza di carattere. Sono invece convinto che la pazienza sia una virtù fondamentale. E, tanto per cominciare, non è affatto innata. La pazienza si apprende, si costruisce col ferreo esercizio della volontà. Il bambino è impaziente. Se ha fame piange, se non c’è la mamma si dispera. L’adolescente è impaziente, morde il freno per stare qualche ora fermo a scuola. Ma anche il bambino, anche il ragazzo, se vogliono riuscire in uno sport, dal calcio alla pesca, devono subito disciplinare i loro impulsi. Devono imparare a stare immobili, attenti, e poi scattare quando è il momento, né un istante prima, né un istante dopo. Devono ripetere pazientemente centinaia di volte lo stesso gesto per perfezionarlo. Molta gente confonde la pazienza con la pigrizia, il disinteresse, l’apatia. Stati psichici caratterizzati dalla mancanza di energia vitale. Invece la pazienza è la capacità di controllare una grande energia vitale senza farsene travolgere, ma indirizzandola a un fine. Nei momenti difficili della vita noi dobbiamo essere capaci di perseguire tenacemente una meta, di volerla con tutta la forza del nostro animo, eppure dobbiamo anche saper aspettare. Come è più facile dare in escandescenze, sbattere una porta! Difficile è sopportare la prima, la seconda, la terza sconfitta e, ogni volta, ricominciare, ritessere le file, cercando nuove strade, nuove alleanze. Tutte le volte che dobbiamo affrontare una grave prova, come un concorso, un affare, una malattia, ma anche un amore, la vera difficoltà è saper resistere giorni e giorni, mesi e mesi, alla più atroce incertezza. La pazienza, in questi casi, è il nome che diamo al coraggio. Il coraggio è la virtù del cominciamento. La pazienza è la virtù del ricominciamento. Perché deve rinascere ogni mattina, ogni ora, ogni minuto. Per <<tener duro>> bisogna  ricominciare a farlo infinite volte. I giovani, finché sono in famiglia, possono permettersi di essere impazienti, cioè di comportarsi come bambini protetti dai loro genitori. Il momento della verità viene quando incominciano a lavorare. Allora, con stupore, si accorgono che nessuno più corregge le loro intemperanze. E che ogni errore devono pagarlo. E, da quel momento, ogni progresso professionale dipende dalla loro capacità di osservare gli altri, di studiarli, di capirli. Siano essi i colleghi, i clienti o i dirigenti. E anche quando viene il momento di parlare, di dire le proprie ragioni, devono sapersi controllare, agire con prudenza e pazienza. L’impazienza crea sempre panico e disagio attorno a sé e, alla fine, si fa tutti nemici. Il padre padrone che, quando torna a casa, urla ad ogni ritardo, il capoufficio che sbraita con la segretaria, il dirigente che strapazza i suoi collaboratori. Costoro usano l’impazienza come strumento di dispotismo e avvelenano la vita e il lavoro degli altri. Chi vuole riuscire non può permettersi questi capricci. A cominciare dal venditore che deve porsi dal punto di vista del cliente, sempre gentile, sempre paziente. Ma anche il grande manager, se vuole ottenere il consenso dei suoi collaboratori, se vuole motivarli davvero, deve essere pronto ad ascoltarli, a parlare, a spiegare, a giustificare, come fa l’allenatore di una squadra. Deve mettercela tutta, e prodigarsi, prodigarsi; e ne deve avere di pazienza!




Tratto da “L’ottimismo” di Francesco Alberoni. Fabri editori- Corriere della Sera 1995.

domenica 7 dicembre 2014

LA CRISI



Ci sono dei periodi nella nostra vita in cui perdiamo l’abituale sicurezza. Ci sentiamo smarriti, disorientati. Avevamo delle idee chiare, delle certezze. Adesso siamo pieni di dubbi. Non sappiamo più se abbiamo fatto le scelte giuste. Alcuni risultati che ci riempivano di orgoglio, ora ci appaiono privi di valore. Ci vengono in mente tutte le altre strade, quelle che non abbiamo percorso, quelle che hanno seguito gli altri e scopriamo che forse erano meglio della nostra. Proviamo rimorso per chi abbiamo inutilmente fatto soffrire. È un momento di crisi, di smarrimento, di disorientamento, di vuoto. 
Qualcuno può dirci che è un attacco di depressione o di nevrosi. Per farlo passare basta un periodo di vacanza, o un viaggio, o una breve cura. Ma è il caso di combatterlo, di sfuggirlo? Non è invece meglio accettarlo, viverlo,  approfittare dell’insegnamento che ci sta dando? Quando siamo impegnati in un compito non possiamo lasciarci afferrare dal dubbio, avvelenare dalle incertezze. Dobbiamo tener ben ferma la meta e occuparci solo dei mezzi per raggiungerla. 
Dobbiamo convincerci che siamo nel giusto e che possiamo riuscire. D’altra parte quando, seguendo un certo metodo, abbiamo avuto successo, ne facciamo tesoro e continuiamo sulla stessa strada. Se in un ristorante i clienti apprezzano particolarmente certi piatti, il cuoco continuerà a prepararli. Quando un pittore ha scoperto una modalità espressiva in cui si realizza e che piace ai critici, vi si abbandonerà con piacere. Lo scienziato che ha elaborato una teoria cercherà di applicarla a tutti i casi che incontra senza sentire il bisogno di cercarle una alternativa. Col passare del tempo, però, quelle che prima erano modalità per esprimere noi stessi e la nuova creatività, a poco a poco finiscono per diventare abitudini, rituali. Il cuoco si abitua a fare gli stessi piatti in modo meccanico. Non sperimenta più nulla di nuovo. L’artista si ripete, imita se stesso. Lo scienziato applica la sua teoria a fenomeni nuovi e diversi che essa non può spiegare. Prima la sua teoria era uno strumento per conoscere, adesso gli nasconde la realtà. Tutto ciò che facciamo nasce come apertura sul mondo, braccia tese per andare incontro e accogliere. Ma questo movimento, ripetuto infinite volte, diventa un rituale vuoto. Non esprime più noi stessi, non ci collega più con la vita. Ecco perché, periodicamente, abbiamo bisogno di una crisi. Qualche volta questa è la conseguenza di un insuccesso, di un brutale schiaffo che la realtà, troppo a lungo trascurata, dà alle nostre abitudini. Ma altre volte ci rendiamo conto di esserci sclerotizzati, irrigiditi, di essere come morti. Allora può arrivare al vertice del successo. Molti autori sono rimasti insoddisfatti del loro capolavoro. Virgilio voleva addirittura distruggere l’Eneide. Scatta in quel momento il bisogno di vedere il mondo da tutti gli altri punti di vista che noi abbiamo dovuto abbandonare per scegliere il nostro, di trascendere ciò che abbiamo fatto. È un bisogno di novità, di freschezza, di ricominciamento che per realizzarsi deve far piazza pulita di ciò che esiste delle strutture in cui ci siamo realizzati. 
La crisi è il momento iniziale, devastante, di un’opera di risanamento e di ricostruzione. Nella vita psichica non c’è vero progresso senza queste discontinuità in cui riusciamo a mettere in discussione radicale noi stessi, ciò che abbiamo fatto, ciò che vogliamo. Distruggendo i nostri possessi, le nostre certezze, creiamo il caos originario in cui tutto diventa nuovamente pensabile e possibile. Solo allora diventiamo nuovamente capaci di cambiare. Perché siamo diventati leggeri, ingenui e umili. 

Tratto da “L’ottimismo” di Francesco Alberoni. Fabri editori- Corriere della Sera 1995.

giovedì 20 novembre 2014

L'INTERVISTA

La dottoressa Ivana Siena ad Evento Abruzzo

La dottoressa  Ivana Siena, Psicologa e Psicoterapeuta ad indirizzo Sistemico-Relazionale, fondatrice del Centro di Psicoterapia Familiare Pescara-Foggia, ha rilasciato un’intervista esclusiva ad Evento Abruzzo.


 L’intervista:

In che modo interpreti il lavoro: Professione? o Vocazione? Perché?

Il percorso formativo legato alla mia professione ha Sì origine da una “chiamata”. Non c’è, però, un essere supremo a farla, ma una serie di fattori legati alle problematiche che si vivono sin dalla nascita nella propria famiglia. Non mi riferisco a situazioni al limite, ma alle difficoltà che ogni Famiglia vive nel corso del proprio ciclo di vita e che, inevitabilmente, hanno risonanze su ognuno dei suoi membri. Queste difficoltà si legano a specifiche caratteristiche di personalità dell’individuo, alla predisposizione all’ascolto ed al personale grado di tolleranza della sofferenza, portando il futuro Psicologo a scegliere di investire in questo tipo di percorso universitario. Il passaggio alla Professione vera e propria arriva quando matura la consapevolezza che l’aiuto che si cerca per sé arriva attraverso quello che si è disposti a offrire all’Altro, e viceversa.

Come mai a tuo avviso i giovani d’oggi non riescono a divertirsi senza bere?

In una società degli eccessi come la nostra, ogni persona è in continuo confronto con il “tanto” ed il “troppo”.  Le energie psico-fisiche che vengono impiegate per restare al passo con i tempi possono essere circoscritte se l’obiettivo è di tipo materiale, ma meno gestibili se si entra nella sfera della realizzazione personale ed in quella delle relazioni sociali. “Insoddisfazione” è la parola chiave, oggi oseremmo dire il tag, che meglio delinea il sentimento di tristezza e la sensazione di vuoto che spesso attanagliano i giovani quando sono impegnati nella ricerca, apparentemente difficile, del proprio valore, della propria stima, così l’alcool diventa lo strumento d’elezione per NON pensare e NON sentire.

La famiglia d’origine può risultare davvero fondamentale nel processo di formazione di una persona? Perché?

La famiglia d’origine E’ fondamentale in questo processo. Tutto ciò che si è da adulti dipende da quello che coloro che ci hanno cresciuto si sono impegnati, più o meno volutamente, a tramandare. Spesso si tratta di messaggi impliciti, gesti, sguardi, brevi frasi i quali restano impressi dentro i figli, le quali saranno la mappa che indica la direzione, il “cosa fare” e “come farlo”. Questa mappa assomiglia ad un copione teatrale che può essere però modificato nel tempo, senza mai rifiutare la trama. Un albero senza le radici è destinato a non stare in piedi, ma a cadere. Lo stesso albero può essere trapiantato e vivere bene anche in altre condizioni diverse, purché non lo si privi delle sue radici.

Il benessere economico, talvolta provoca apatia e depressione, come spieghi questo fenomeno?

Il confronto continuo con dei modelli che incoraggiano “l’avere” piuttosto che “l’essere”, si scontra notevolmente con la realtà economicamente meno favorevole di talune persone. Ciò che provoca apatia e, nei casi più gravi, depressione è il “misurarsi” con l’altro, ma la stessa parola implica il sentirsi sconfitti in partenza. Ragionare per emulazione impedisce l’accettazione di ciò che si è o si è diventati, porta a polemizzare contro il fato perdendo di vista il proprio potere di cambiare le cose, se solo lo si vuole. Sentirsi meno fortunati diventa un alibi per restare nella passività e non crearsi alternative.

Che ruolo hanno assunto i  Social Network in una società come la nostra?
  
Mi viene in mente la parola Alter Ego, ossia l’altro Sé che ognuno vorrebbe essere. Credo che i Social Network rappresentino l’invenzione più ingegnosa degli ultimi tempi, ma anche la più penalizzante. Se da un lato attraverso questi si può esprimere se stessi nella totalità, perché protetti da uno schermo che impedisce il contatto oculare con le persone, dall’altro si trasforma la naturalezza delle relazioni vis à vis. Si tratta di un mezzo per esibire, comunicare, condividere e spesso giudicare, infatti si può affermare che, a tutti gli effetti, è un’arma e come tale può essere usata per proteggere o per ferire  gli altri, ma spesso si dimentica che il rischio più grande è rivolgerla verso se stessi.

In un momento di congiuntura economica come quello stiamo attraversando  che valenza possono assumere i sogni veri ed autentici?

A mio avviso i sogni sono tutti veri ed autentici, sono la rappresentazione paradossale della realtà, quella che si desidera e che spesso viene negata a se stessi. La riflessione sul “cosa” impedisce di realizzarli è un lavoro lungo e difficile, ma non impossibile.

 Matteo Sborgia 

domenica 9 novembre 2014

IL MOBBING


Aspetti generali

Negli ultimi anni, il fenomeno del mobbing è stato oggetto, in tutto il mondo, di particolare attenzione da parte dell’opinione pubblica, degli organi istituzionali e della comunità scientifica. Leymann utilizza per primo all’inizio degli anni ’80 il termine mobbing per descrivere nel mondo del lavoro “una forma di terrorismo psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica da una o più persone, nei confronti di un solo individuo, il quale viene a trovarsi in una condizione indifesa e fatto oggetto di una serie di iniziative vessatorie e persecutorie”.
Queste iniziative debbono ricorrere con una determinata frequenza (statisticamente almeno una volta alla settimana) e nell’arco di un lungo periodo di tempo (per almeno sei mesi di durata). A causa dell’alta frequenza e della lunga durata del comportamento ostile, questa forma di maltrattamento determina considerevoli sofferenze mentali, psicosomatiche e sociali“.
Leymann attribuisce la causa scatenante del mobbing al conflitto sul luogo di lavoro. Sono sei i campi da lui individuati in cui possono svilupparsi dei conflitti dai quali può scaturire il mobbing; i primi 3 sono fattori esterni al gruppo di lavoro (organizzazione del lavoro, mansioni lavorative e direzione del lavoro), gli altri 3 sono invece, più legati ad esso (dinamica sociale del gruppo di lavoro, teorie sulla personalità e funzione nascosta della psicologia nella società).
La prima ricerca italiana sul mobbing è stata condotta da Ege nel 1998. Egli individua 7 fasi attraverso le quali si configura il mobbing: pre-fase o “condizione zero”, conflitto mirato, inizio del mobbing, primi sintomi psico-somatici, errori ed abusi nell’amministrazione del personale, serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima, esclusione dal mondo del lavoro, allontanamento definitivo della vittima dal posto di lavoro.
L’origine del mobbing si può definire multifattoriale, derivando dalla combinazione e dalla presenza contemporanea di fattori organizzativi, personali e relazionali, insieme ad un certo livello di conflittualità considerato da alcuni insito nelle relazioni umane. Il mobbing dunque, comporta influenze negative sulla vita dei soggetti che ne sono vittime, tra cui: effetti relazionali, effetti economici (a causa spesso della perdita del lavoro), effetti sulla salute (sintomi fisici e sintomi psichici).
I tipi di mobbing esistenti sono 5:
a) mobbing dal basso o down-up: il mobber è in una posizione inferiore rispetto a quello della vittima;
b) mobbing dall’alto: il gobbe è in una posizione superiore rispetto alla vittima;
c) bossing o mobbing strategico: è una forma di mobbing che viene usata strategicamente dalle imprese per promuovere l’allontanamento dal mondo del lavoro di soggetti in qualche modo scomodi;
d) mobbing tra pari o orizzontale: il mobber e la vittima sono allo stesso livello;
e) doppio mobbing: l’energia distruttiva di cui la vittima è caricata e che trova nella famiglia la possibilità di scaricarsi, può giungere ad un livello tale da comportare la saturazione delle riserve familiari, per cui il mobbizzato perde la valvola di sfogo rappresentata dalla famiglia e quindi rimane solo.


Le conseguenze
Il mobbing si rivela essere un aspetto negativo nella vita delle organizzazioni con conseguenze individuali, sociali e organizzative. Dalla nascita delle ricerche sul mobbing, l’attenzione si è inizialmente focalizzata sugli effetti negativi che quest’esperienza ha sulle vittime. L’esposizione al mobbing è stata classificata come una significante sorgente di stress sociale sul lavoro e come il problema più paralizzante e devastante per i lavoratori rispetto a tutti gli altri stressor correlati al lavoro messi insieme. La reiterazione ed il protrarsi nel tempo della molestia morale e psicologica comportano, nella maggioranza dei casi, la riduzione dello stato di salute complessivo della persona vessata. Tenuto conto che ciascuno reagisce ad un attacco esterno in modo diverso, il fenomeno del mobbing può portare a:
-         Alterazioni dell’equilibrio socio-emotivo (ansia, depressione, ossessioni, attacchi di panico, anestesia emozionale),
-         Alterazioni dell’equilibrio psicofisico (cefalea, vertigini, disturbi gastrointestinali, ipertensione arteriosa, dermatosi mal di schiena, disturbi del sonno e della sessualità),
-         Disturbi a livello comportamentale (modificazioni del comportamento alimentare, reazioni autoaggressive ed eteroaggressive, passività).
I mobbizzati possono inoltre diventare solitari e taciturni, perdere interesse nelle proprie famiglie, essere irritabili e persino aggressivi contro le persone che amano. Essi possono affidarsi all’alcool o diventare ossessionati dal bisogno di discolpare se stessi, spendono ore in solitudine tentando di affrontare il criticismo del mobber ed elencando corrispondenze nel tentativo di giustificare se stessi.
Sulla base di osservazioni cliniche ed interviste con vittime di mobbing, nel 1976 Brodsky identificò tre pattern generali di reazione. Alcune vittime svilupparono sintomi fisici vaghi come debolezza, perdita di forza, fatica cronica, dolori e vari mali. Altri reagirono con depressione e sintomi correlati come impotenza, perdita di autostima e insonnia. In ultimo, un terzo gruppo riportò vari sintomi psicologici come ostilità, ipersensibilità, perdita di memoria, vittimizzazione, timidezza e ritiro sociale. Altri studi sul mobbing suggeriscono che le donne possono essere più colpite rispetto agli uomini in quanto loro vivono il fenomeno generalmente in modo differente e probabilmente più severo, indipendentemente dal numero degli atti negativi ai quali sono esposte. Sulla base di una vasta analisi dei sintomi riportata dai soggetti osservati, si è arrivati a stabilire che i disturbi di cui generalmente soffrono i lavoratori-vittime possono rientrare nella categoria dei disturbi post-traumatici da stress (PTSD).
Non mancano, però, pareri discordanti: alcuni inquadrano il mobbing come disturbo dell’adattamento, e altri ancora ritengono che una delle sindromi che più colpisce i lavoratori a seguito di mobbing sia il disturbo di attacchi di panico. A causa di un forte bisogno delle vittime nel cercare supporto in questa loro situazione, diviene difficile per i colleghi non rimanere coinvolti o neutrali in casi come questi. Gli effetti del mobbing si ripercuotono, perciò, sull’intero gruppo di lavoro sotto molteplici aspetti di deterioramento del clima aziendale, influenza dei livelli di produttività e della prestazione lavorativa di gruppo, e di abbassamento degli standard di efficacia ed efficienza. In uno studio del 2001 è emerso come l’essere stati testimoni di mobbing sia un significante predittore di reazioni a stress generale. Anche l’organizzazione, però, subisce le conseguenze negative del mobbing, in termini di costi diretti (aumento del livello di assenteismo e turnover, costi sostenuti per malattia dei dipendenti, coinvolgimenti in contenziosi giuridici, crescita di incidenti ed errori, ecc. ) e di costi indiretti (abbassamento del morale, mancanza di soddisfazione lavorativa, comunicazione disfunzionale, mancanza di motivazione e creatività, ecc).

Lo sviluppo dell’interesse per il mobbing: una riflessione contemporanea

La crescente attenzione data al mobbing può essere spiegata in parte dal recente cambiamento economico e sociale. Per sopravvivere, le organizzazioni devono affrontare continue pressioni che portano a downsizing e ristrutturazioni per sostenere competitività in una crescente economia globale. Le poche persone vengono lasciate con più lavoro in un clima d’incertezza. Incertezza, mobilità, rischio e opportunità sono concetti che descrivono la società odierna caratterizzata da un capitalismo flessibile e da un’economia della velocità. Tale società che vede le strutture produttive trasformarsi profondamente, per adattarsi alle necessità del mercato, conosce anche sul versante lavorativo cambiamenti non irrilevanti. Questa adozione di modelli gestionali flessibili provoca mutamenti ad un ritmo talmente frenetico, che può avere effetti collaterali sulla salute psicofisica dei lavoratori e sulla qualità della loro vita, cosi come sul benessere delle organizzazioni stesse interessate da simili mutamenti. E’ indubbio che questo nuovo modello di azienda e lavoro flessibile sia pensato per apportare salute, benessere e prosperità ma dove questi processi non vengono attuati con particolare cautela e attenzione al fattore umano si può venire a creare un clima di insicurezza e un ambiente lavorativo nel quale si rafforzano le probabilità di conflitti interpersonali e mobbing. La maggior parte degli uomini e delle donne sopportano questo abuso non facendo niente perché hanno paura per il loro posto di lavoro. Con famiglie da sostenere e mutui da pagare, mantenere il silenzio è spesso l’opzione scelta. Mentre chi trova il coraggio di affrontare la questione è probabile che venga etichettato come portatore di problemi o di essere accusato di insubordinazione.

Bibliografia
Beasley, J., &Rayner, C (1997). Bullyngat work: after Andrea Adams. Journal of Community &Applied Social Psychology, 7, 177-180.
Einarsen, S. (2003). Individualeffects of exposure to bullyingat work.
Maier, E. (2003).Il mobbing come fenomeno sociale. In Depolo M. (a cura di). Mobbing: quando la prevenzione è intervento: aspetti giuridici e psicosociali del fenomeno. Milano: Franco Angeli.
Rifkin, J (2000). L’Era dell’Accesso. La rivoluzione della new economy, Milano: Mondadori.

Dott. Renato Porcelli
Laureato in Psicologia e tirocinante presso la Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara



sabato 8 novembre 2014

E TU, COME AMI?


Siamo in un’epoca in cui il tradimento è diventato la normalità e le coppie scoppiano senza comprendere cosa davvero le porti al capolinea.
Poche persone, scoperto il tradimento, si chiedono: “Perché lo ha fatto?”, o meglio: “Dove ho sbagliato?”. Iniziano le battaglie legali, in cui a rimetterci sono i figli i quali, diventati adulti, saranno depressi, teppisti, dipendenti da sostanze stupefacenti, fobico-ossessivi o coppio-fobici, questo a scapito dell’intera società. 


Prima di chiederci come fare a scegliere la "persona giusta", partiamo con il descrivere quattro forme di amore patologico (e relativi esempi di storie quotidiane) che spesso vengono scambiate per vero amore per poi delineare invece quali sono gli ingredienti essenziali su cui deve basarsi un amore vero e maturo.

Le forme di amore patologico sono: l’amore simbiotico, l’amore accudente, l’amore possessivo e l’amore competitivo.
L’amore simbiotico è molto diffuso e si basa sulla convinzione che, se ami qualcuno, devi fare tutto con lui, condividere tutto, raccontargli tutto, anche quante volte vai in gabinetto e così via. Spesso i commenti degli amici sono: “Loro si che si amano davvero! Non possono stare l’uno senza l’altro”.
Un partner diventa la stampella dell’altro, mentre il vero amore, basato sulla libertà, è quello in cui una persona autonoma (che può stare anche da sola), decide di unirsi a un’altra per crescere, migliorare se stessa e tirare fuori il meglio di sé dall’altro. Purtroppo la dipendenza nella nostra cultura viene incoraggiata, anche a livello familiare, in quanto i figli vengono spesso “trattenuti” nel nido fino alla morte (del genitore o del figlio).
G. è sposata da 10 anni con D. Prima di fidanzarsi con lui, aveva avuto solo due storie di poca importanza, essendo sempre stata succube della sorella, con cui passava tutto il suo tempo libero. G. è passata dall’essere succube della sorella all’essere succube di D. Il loro rapporto è diventato sempre più profondo: uscivano insieme in ogni occasione, anche dopo essersi sposati e aver avuto un figlio, e venivano considerati da tutti una coppia invidiabile. Tutto filò liscio finché D. , ottenendo una promozione, iniziò a lavorare fuori città, rientrando a casa solo il fine settimana. All’inizio fu un trauma per entrambi, ma poi D. si abituò alla nuova vita e incontrò una donna che gli fece perdere la testa. Dopo un periodo di “doppia vita”, D. si è deciso, probabilmente messo alle strette dall’altra, e ha chiesto il divorzio. G. è entrata in profonda crisi depressiva e ha tentato il suicidio.
L’amore accudente è un altro falso mito dell’amore dove uno dei due partner si prende cura dell’altro facendogli da mamma o papà. Questo ha due importanti e negative conseguenze. Innanzitutto un po’ alla volta si perde l’attrazione fisica e il sesso va a farsi benedire. Non si può desiderare un figlio! La seconda conseguenza di questo stile amoroso è che il figlio, prima o poi, si stufa di essere accudito, diventa invidioso dell’altro, che è sempre più bravo di lui e…si trova un’amante.
L. ha trovato in G. il padre che non ha mai avuto. Lui la protegge, le da affetto e così, dopo cinque anni di accudimento / fidanzamento, si sono sposati. Dopo poco più di un anno di matrimonio L. non desidera più sessualmente suo marito. Sono entrati in crisi profonda e si sono rivolti ad una psicoterapeuta per risolvere il problema dell’assenza di desiderio da parte di lei. G. non sa che la mancanza di desiderio è solo verso di lui, non verso il collega di lavoro che L. ha appena conosciuto!
Esiste poi l’amore possessivo, per cui l’amato diventa un’oggetto di proprietà, nei confronti del quale si scatena una gelosia morbosa, da molti scambiata per vero amore. “Tu” non puoi sorridere o parlare con nessun altro, solo con il tuo partner. Inoltre vieni continuamente controllato, perché, essendo un oggetto di proprietà, non puoi decidere in modo autonomo. Ogni decisione presa da solo, senza consultare l’altro/a, o meglio senza fare quello che vuole l’altro/a, diventa un attacco alla coppia, fonte di scenate a non finire. Questo tipo di rapporto non è amore, ma è patologia di cui entrambi i partner si ammalano, avvelenando la loro unione. Anche in questo caso il sesso va a farsi benedire, perché il rancore covato da entrambe le parti, (da uno perché è in galera, dall’altro perché è il suo carceriere) fa spegnere anche la più grande passione.
C. convive da quattro anni con A. E’ gelosissima del suo lavoro, dei suoi genitori, degli amici che ha da più di dieci anni. In altre parole, A. è prigioniero di C., al punto che, non potendone più, ha chiesto aiuto ad una psicoterapeuta. Si sente soffocare e non riesce più neanche a desiderarla, perciò da alcuni mesi non hanno più rapporti intimi. Vorrebbe lasciarla, ma lei gli fa delle scenate drammatiche in cui grida, svegliando i vicini in piena notte, e minaccia di rovinarlo.
Infine, nell’amore competitivo, un partner diventa rivale e geloso non dell’altro, ma del suo successo personale o professionale. Dapprima i due vengono attratti dal sottile gioco dell’ammirazione che nutrono l’uno verso l’altra, ma poi, essendo entrambi narcisisti ed egocentrici, dalla fase dell’ammirazione passano a quella dell’afflizione e iniziano a essere invidiosi dell’altro, perché il faro non è più puntato su di loro. In altre parole, dapprima scelgono una persona speciale per bellezza, preparazione, denaro. Poi diventano invidiosi e rivali e, a quel punto, si salvi chi può.
P. e M. sono sposati da quindici anni. Tutto è andato liscio finché lavoravano come dipendenti in due ditte diverse. Essendo la figlia ormai adolescente, hanno deciso, con i risparmi e con la liquidazione del precedente impiego, di unire le loro forze mettendosi in proprio. Dopo i primi momenti un po’ difficili, la ditta ha iniziato a funzionare molto bene, ma contemporaneamente sono iniziati i problemi tra loro. Le liti sono sempre più frequenti scatenate da motivi apparentemente futili. La competizione è scattata e sta rovinando quindici anni di unione!
L’amore maturo, il vero amore, è basato sui seguenti ingredienti:
-         Autonomia, nel senso che ogni partner ha i suoi spazi di libertà e decide autonomamente della sua vita;
-         Reciprocità, esiste cioè uno scambio: ci si aiuta vicendevolmente e non c’è nessuno che domina.
-         Libertà, ognuno dei partner è libero di essere se stesso, di prendere le sue decisioni lavorative, di seguire i suoi hobby. Qualcuno potrà obiettare: “ Ma se lo lascio libero/a, se ne trova un altro/a”. Non preoccupatevi, se vuole lo trova in ogni caso.
-         Solidarietà, un partner aiuta l’altro a dare il meglio di sé.
-      Impegno, entrambi non danno mai nulla per scontato, ma si impegnano a dare attenzione, ascoltare, gratificare il partner, fornendo stimoli nuovi.
A ciò va aggiunta la capacità di essere flessibili e di accettare i cambiamenti che comporta l’esistenza. La vita è fatta di cambiamenti e noi dobbiamo essere in grado di fronteggiarli. Chi pretende che tutto rimanga uguale, perché è un ossessivo e vuole avere tutto sotto controllo, non ne verrà fuori. Anche la disponibilità ad accettare gli alti e bassi della vita, le imperfezioni e gli errori, perché nessuno è perfetto, è di fondamentale importanza. Quando nasce un amore, non è detto che debba durare per sempre. Niente è certo, però possiamo impegnarci per farlo continuare nel tempo. È importante sottolineare anche che l’impegno deve esserci da entrambe le parti, altrimenti è una battaglia persa. Quando inizia un rapporto, inevitabilmente si presenta una di queste quattro possibilità: che continui in modo soddisfacente, che finisca di comune accordo, che uno dei due soffra perché lasciato dall’altro o infine che il rapporto continui con grande insoddisfazione per entrambi (della serie: “…e vissero infelici e scontenti”). 
Dobbiamo riuscire ad accettare che nulla è certo e non avremo mai il controllo assoluto su nulla. Se queste convinzioni fossero veramente radicate, non si darebbe più nulla per scontato e si sprecherebbero molte meno energie a voler esercitare un controllo sugli altri e sulla vita. Probabilmente si vivrebbe meglio, gli amori durerebbero di più, si coglierebbero più opportunità per migliorare la qualità della propria vita e si sarebbe più disponibili verso il prossimo.

Articolo tratto da:
LA COPPIA CHE SCOPPIA” di Maria Cristina Strocchi. Edizioni Il Punto d’Incontro. 2009, Vicenza.


Dott. Renato Porcelli

Laureato in Psicologia e tirocinante presso la Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara.

martedì 4 novembre 2014

HIKIKOMORI

LA VITA DENTRO UNA STANZA

“Gli atomi entrano nel mio cervello,
eseguono una danza e se ne vanno;
atomi sempre nuovi ripetono la stessa danza,
ricordando quella di ieri”
Feynman R.P

Il fenomeno degli Hikikomori, molto sviluppato nella società giapponese, ha fatto la sua comparsa solo di recente in Europa e in Occidente, e si sta diffondendo a macchia d’olio interessando sempre più giovani anche in Italia.


Il termine Hikikomori deriva dal giapponese ”hiku”, tirare, e “komoru”, ritirarsi, cioè “stare in disparte,isolarsi”.
Gli Hikikomori, hanno la tendenza a ritirarsi nella propria stanza senza più uscirne per lunghi periodi di tempo. Si tratta di un volontario isolamentoche può durare dai 6 mesiad alcuni anni, in cui non si hanno contatti con l’esterno, vengono abbandonati gli amici e ogni forma di comunicazione con la famiglia. 
Questo fenomeno coinvolge soprattutto i giovanissimi anche se non risparmia personepiù grandi. Ad essereprincipalmente coinvolti sono i soggettidi sesso maschile, con un estrazione sociale medio-alta, euno stile di vita sedentario. Gli Hikikomoridedicano il proprio tempo ai fumetti e al pc, invertono il ritmo sonno-veglia, e consumano il cibo in solitudine,evitando ogni contatto con l’esterno. Ritirandosi dalla società si ritirano anche dalle normali attività quotidiane;abbandonano la progettualità, hanno maggiori possibilità di svilupparedipendenza da internet e di manifestare espressioni di violenza e aggressività.

Le cause del fenomeno in Giappone
Lecause di questo fenomeno allarmante sono da ricercare all’interno della società e della cultura giapponese.
Spesso il primo segnale di un probabile Hikikomori è rappresentato dal rifiuto scolastico. In Giappone il sistema scolastico è molto rigido e competitivo; molte scuole non prevedono spazi relazionali né attività fisica, e spesso si studia anche 12 ore al giorno. La percezione di questa forte pressione all’autorealizzazione spinge chi non ha le competenze e la motivazione per reggerla a rifugiarsi nel mondo sicuro della propria stanza.
Un’ulteriore causa dell’abbandono scolastico è rappresentata da una sorta di fobia legata all’aver vissuto esperienze di bullismo, fenomeno in Giappone particolarmente diffuso.
Non sono, inoltre, da sottovalutare le dinamiche familiari.Uno stile educativo caratterizzato da eccessivo attaccamento e iperprotettività, genera nei ragazzi un sentimento di inferiorità e inadeguatezza rispetto alle aspettative troppo elevate dei genitori.La paura di non riuscire a raggiungere ciò che gli altri si aspettano li spinge a chiudersi in se stessi. Spesso nelle famiglie giapponesi la figura paterna è assente a causa dei ritmi di lavoro insostenibili. La mancanza del padre non solo priva il bambino di una figura genitoriale fondamentale, ma favorisce anche lo svilupparsi di un legame di dipendenza tra madre e figlio (in Giappone “amae”) che si riscontra in molti casi di Hikikomori.
Infine, i ritmi estenuanti e le difficoltà della società moderna hanno contribuito a far nascere in questi ragazzi un forte sentimento di rifiuto verso il mondo esterno. L’Hikikomori è infatti un ragazzo che, per scelta o per limiti caratteriali, decide di vivere isolato dalla società.

Differenze socio-culturali tra Giappone ed Europa
Il fenomeno Hikikomori giapponese e quello europeo presentanomolte differenze socio-culturali. La cultura giapponese è caratterizzata dalla presenza di regole eccessivamente rigide alle quali i giovani si ribellano rifugiandosi nella propria casa, come forma di protesta silenziosa. In Occidente, invece, è l’assenza di un sistema coerente di regole sia sul piano sociale, relazionale che lavorativo a creare nei giovani la percezione di sentirsi inadeguati, e non riuscendo a trovare il proprio ruolo nel mondo, tendono a rifugiarsi in unarealtà più rassicurante.
Un’altra differenza fondamentale tra Oriente e Occidente è che gli Hikikomori europei fanno un uso molto massiccio ed eccessivo delle nuove tecnologie, mantenendo un contatto con l’esterno tramite internet. Per tale ragione questo fenomeno vienespesso associato e confuso con il disturbo da dipendenza da internet (IAD). La comunicazione virtuale per gli Hikikomori europei rappresenta l’unica forma di relazione.

Hikikomori e Dipendenza da Internet
Spesso la dipendenza da internetviene indicata tra le cause dell’isolamento. Ciò non è sempre corretto. Molti Hikikomori infatti non usano affatto le nuove tecnologie, o comunque non sviluppano un rapporto di dipendenza da esse. In questi casi l’isolamento è totale.
Hikikomori eDipendenza da internet (Internet Addiction) sono quindi due cose diverse, ma che allo stesso tempo possono incrociarsi.
L'isolamento e la solitudine possono spingere l'individuo a cercare nella rete l'unico mezzo di contatto con il mondo esterno:in questo caso, l'uso di internet è conseguenza e non causa dell'isolamento. Al contrario, se è l'abuso di internet che spinge l'individuo verso un graduale allontanamento dalla società, allora si può parlare di Dipendenza da Internet.
In Italia, rispetto al Giappone, questa differenza è meno netta e i due fenomeni appaiono spesso come due facce della stessa medaglia.

Quando si può parlare di Hikikomori?
Chi passa ore al computer, per esempio per studio o lavoro, non può essere considerato in pericolo. Il fattore discriminante è legato al rapporto che la persona mantiene con il mondo esterno.Il campanello d’allarmesi ha quando il virtuale diventa una via di fuga dalla realtà.
Gli Hikikomorisono giovani che rifiutano qualsiasi contatto che non sia mediato da un computer ed evitano di uscire dalla propria stanza per mesi o per anni.
Non esiste ancora una collocazione di questo disagio all’interno dei manuali diagnostici. Tuttavia,i criteri individuati sono: il ritiro sociale da almeno 6 mesi, la riduzione delle relazioni e incapacità di comunicazione, l’inversione del ritmo sonno-veglia, il rifiuto scolastico o lavorativo e la noia. Tale fenomeno può presentarsi in soggetti depressi o con comportamenti ossessivo-compulsivi.

Il ritiro dalla società avviene gradualmente, per cui è importante osservare i cambiamenti del comportamento:i ragazzi possono apparire infelici, diventare insicuri, timidi, arrabbiati, iniziare a parlare di meno e a non frequentare più i loro amici.
E’fondamentale un intervento tempestivo per evitare l’emergere di ulteriori complicazioni e patologie chespesso si associanoal fenomeno dell’Hikikomori, mirando a migliorare le relazioni e le capacità di interagire,attraverso un percorso terapeutico che possa produrre esiti positivi.

“Hikikomori è una svolta inaspettata in un sentiero diventato insidioso, un luogo di difesa dove tenere nascosto il proprio sé stanco e inadeguato, un riparo segreto”
Carla Ricci

- Carla Ricci, Hikikomori: narrazioni da una porta chiusa (2009)
- http://www.nienteansia.it/articoli-di-psicologia/disturbi-e-patologie/hikikomori-nuovo-stile-di-vita-o-nuova-patologia/7640/




venerdì 10 ottobre 2014

NON INSEGNATE AI BAMBINI


Un bambino risponde «grazie» perché ha sentito che è il tuo modo di replicare a una gentilezza, non perché gli insegni a dirlo.
Un bambino si muove sicuro nello spazio quando è consapevole che tu non lo trattieni, ma che sei lì nel caso lui
 abbia bisogno di te.
Un bambino quando si fa male piange molto di più se percepisce la tua paura.
Un bambino è un essere pensante, pieno di dignità, di orgoglio, di desiderio di autonomia, non sostituirti a lui, ricorda che la sua implicita richiesta è «aiutami a fare da solo».
Quando un bambino cade correndo e tu gli avevi appena detto di muoversi piano su quel terreno scivoloso, ha comunque bisogno di essere abbracciato e rassicurato; punirlo è un gesto crudele, purtroppo sono molte le madri che infieriscono in quei momenti. Avrai modo più tardi di spiegargli l’importanza del darti ascolto, soprattutto in situazioni che possono diventare pericolose. Lui capirà.
Un bambino non apre un libro perché riceve un’imposizione (quello è il modo più efficace per fargli detestare la letteratura), ma perché è spinto dalla curiosità di capire cosa ci sia di tanto meraviglioso nell’oggetto che voi tenete sempre in mano con quell’aria soddisfatta.
Un bambino crede nelle fate se ci credi anche tu.
Un bambino ha fiducia nell’amore quando cresce in un esempio di amore, anche se la coppia con cui vive non è quella dei suoi genitori. L’ipocrisia dello stare insieme per i figli alleva esseri umani terrorizzati dai sentimenti.«Non sono nervosa, sei tu che mi rendi così» è una frase da non dire mai.
Un bambino sempre attivo è nella maggior parte dei casi un bambino pieno di energia che deve trovare uno sfogo, non è un paziente da curare con dei farmaci; provate a portarlo il più possibile nella natura.
Un bambino troppo pulito non è un bambino felice. La terra, il fango, la sabbia, le pozzanghere, gli animali, la neve, sono tutti elementi con cui lui vuole e deve entrare in contatto.
Un bambino che si veste da solo abbinando il rosso, l’azzurro e il giallo, non è malvestito ma è un bambino che sceglie secondo i propri gusti.
Un bambino pone sempre tante domande, ricorda che le tue parole sono importanti; meglio un «questo non lo so» se davvero non sai rispondere; quando ti arrampichi sugli specchi lui lo capisce e ti trova anche un po’ ridicola.Inutile indossare un sorriso sul volto per celare la malinconia, il bambino percepisce il dolore, lo legge, attraverso la sua lente sensibile, nella luce velata dei tuoi occhi. Quando gli arrivano segnali contrastanti, resta confuso, spaventato, spiegagli perché sei triste, lui è dalla tua parte.
Un bambino merita sempre la verità, anche quando è difficile, vale la pena trovare il modo giusto per raccontare con delicatezza quello che accade utilizzando un linguaggio che lui possa comprendere.
Quando la vita è complicata, il bambino lo percepisce, e ha un gran bisogno di sentirsi dire che non è colpa sua.
Il bambino adora la confidenza, ma vuole una madre non un’amica.
Un bambino è il più potente miracolo che possiamo ricevere in dono, onoriamolo con cura.

(Giorgio Gaber “Non insegnate ai bambini”)