venerdì 31 gennaio 2014

ADOZIONE

E' necessario dire ad un bambino che è stato adottato?



Una domanda che spesso si pongono i genitori che hanno preso in adozione bambini molto piccoli (generalmente prima dei due anni), è se è opportuno dire al proprio bambino che è stato adottato. Questo interrogativo è legato all'ipotesi che il bambino, proprio perché piccolo, non ricorderà nulla delle sue origini. Tuttavia, da esperienze cliniche, risulta che i bambini adottati anche molto piccoli ricordano “oscuramente” qualche elemento del loro ambiente natio e delle parole e dei segni della loro lingua originale, elementi che spesso compaiono nei sogni in modo misterioso ed inquietante. Un bambino molto piccolo è facilmente in grado di instaurare una relazione affettiva con i nuovi genitori, nonostante ciò non bisogna sottovalutare che egli conserva dentro di sé le tracce dell’abbandono che possono manifestarsi con una moltitudine di disturbi (alimentari, del sonno, di natura psicosomatica ecc...).
Talvolta i genitori adottivi si chiedono se non sia meglio che il bambino creda di essere un figlio naturale, tentando così di non “etichettarlo” come diverso dagli altri bambini. Resta in dubbio l’idea che il “sentirsi diverso” sia davvero una sensazione legata esclusivamente al bambino, oppure se sia invece dei genitori.
In passato tenere all'oscuro il bambino dalle sue origini era pratica molto diffusa, mentre oggi si ritiene opportuno raccontargli la verità per tutelare la serenità del nucleo familiare. I bambini sono molto sensibili a piccole variazioni del tono della voce, a discorsi interrotti al loro apparire, ad imbarazzi che riguardano l’argomento dell’adozione e captano inconsapevolmente qualcosa di misterioso che li riguarda, diventando così diffidenti e sospettosi. Tutto questo può comportare difficoltà relazionali tra genitori e figlio.
Si è visto che molti figli adottivi, una volta informati sulla verità della loro nascita, affermano di averla sempre velatamente avvertita come un elemento inquietante che li riguardava. Inoltre nel momento in cui ne vengono a conoscenza, per cause accidentali o meno, la consapevolezza improvvisa rischia di trasformarsi in un trauma che spesso il bambino non è in grado di fronteggiare. Potrebbero svilupparsi, così, vissuti di duplice abbandono e potrebbe venir meno la fiducia nei confronti dei genitori adottivi.
Una delle difficoltà che riscontrano i genitori nel dire da subito la verità al proprio figlio adottivo, riguarda probabilmente la mancata elaborazione dell’impossibilità a generare naturalmente. L’adozione, che li ha resi padri e madri, non è stata sufficiente a rimarginare una ferita che tentano di dimenticare o di colmare.
Nell’adozione può accadere che i nuovi genitori idealizzino il bambino per rivestirlo di un ruolo centrale all’interno della famiglia. L’intento, prevalentemente inconscio, è quello di lenire l’ansia relativa a ciò che di ignoto porta il bambino con sé compresa la verità che esistano da qualche parte dei genitori naturali che sono stati privati di questo figlio. Sentimenti di rivalità e di “furto” rispetto alla madre naturale possono alimentare le fantasie di un’appropriazione indebita e colpevole, che vengono perlopiù rimosse.
La cosa migliore è dire la verità fin dall’inizio, cogliendo ogni minima occasione per parlare della realtà dei fatti. Non ha molta importanza se il bambino è troppo piccolo per poter capire: da ricerche effettuate, risulta che i bambini capiscono la differenza tra l’essere nato in una famiglia e l’essere stato adottato all’incirca verso i cinque anni, ma è consigliabile parlarne anche da prima. Si può affrontare l’argomento con parole semplici non appena, ad esempio, il bambino si mostri incuriosito verso una donna in evidente stato di gravidanza. Si può dire che la signora ha un bambino nella pancia, ma che lui non è stato nella pancia della sua mamma bensì in quella di un’altra signora che non ha potuto tenerlo con sé anche se, forse, lo avrebbe desiderato; una mamma che sperava che ci fossero altri due genitori che avrebbero potuto farlo crescere al posto suo.
Parlare dell’adozione fin dall’inizio non farà sentire al bambino ingannato rispetto alle sue origini e farà sentire i genitori più tranquilli nel rispondere alle domande del figlio, quando questi sarà in grado di formularle.
Una delle paure più grandi dei genitori adottivi è quella di pensare che i bambini, una volta scoperta la verità, non li ameranno più, evenienza spesso legata a fantasie più che a dati di fatto. Dal punto di vista del bambino, conoscere la sua vera storia sin dall’inizio rappresenta un’occasione per avere fiducia nelle possibilità che la vita offre, in quanto gli si insegna che nonostante i suoi genitori biologici non siano più presenti, lui ha a disposizione altre due figure che possono fornirgli amore e modelli di identificazione.
Se il bambino, come quasi sicuramente accadrà, comincerà ad incuriosirsi alle circostanze della propria nascita o se farà domande a riguardo, deve essere ascoltato e deve ottenere delle risposte congrue e reali, ovviamente mediate in base all'età. La verità diventa così la chiave per instaurare un rapporto di fiducia tra le due parti permettendo al bambino di sentirsi legittimato a fare domande perché ci sarà sempre qualcuno pronto a rispondergli.
Spesso rimane nei coniugi la convinzione, a livello inconsapevole, che la genitorialità adottiva sia inferiore a quella naturale e questo porta loro a pensare che, nonostante tutto, il bambino appartenga ai genitori naturali e che le cose che verranno fatte per lui non saranno mai sufficienti a rendere i genitori adottivi “degni” come quelli che invece gli hanno donato la vita. Nascondere la vera storia li fa sentire, inconsapevolmente, meno “paragonabili” e quindi meno in discussione rispetto alle proprie capacità di essere genitori.
Un altro timore dei genitori è che il figlio non si affezioni a loro, soprattutto se non è piccolissimo ed ha avuto contatti con i genitori naturali e che, una volta grande, il bambino voglia riallacciare i rapporti con questi ultimi. Il tentativo del figlio adottivo di ricercare le proprie origini evidenzia il senso di competizione che può esserci nei genitori adottivi rispetto a quelli naturali. Tali fantasie vengono vissute come un senso di fallimento personale, poiché i genitori adottivi non riescono a considerare la "curiosità genealogica", comune negli adolescenti adottati, come una tappa fisiologica e normale. Piuttosto si nutrono di un alto grado di autosvalutazione che ripropone loro la propria sterilità originaria, ferita mai rimarginata.
 Anche se può risultare molto complicato per i genitori adottivi, la cosa migliore e “giusta” per il bambino è aiutarlo a mantenere un legame con il suo ambiente di origine: se è possibile e, ovviamente, se il bambino lo desidera, è importante visitare il luogo da cui proviene come anche aiutarlo a mantenere i rapporti con eventuali  fratelli che, come spesso accade, vengono adottati da altre famiglie. Mantenere un legame con le sue origini farà sentire al bambino adottato che la sua infanzia non è perduta e gli darà la possibilità di perdonare l’abbandono subito.
Se il genitore sente disagio ed angoscia nell’affrontare le domande del bambino, al di là delle sue convinzioni razionali, è necessario che si ricorra ad una figura competente che possa aiutare lui, genitore, in questo arduo compito, ed il bambino nella difficile conquista che è lo strutturarsi della propria identità, affinché possa integrare il dolore dell’abbandono con il piacere del nuovo attaccamento. Ciò che conta maggiormente non è la ricostruzione della realtà storica, ossia dei fatti avvenuti, ma quella delle emozioni ad essi collegate.

Bibliografia:

Bosi S., Guidi D. (1991), Guida per i genitori adottivi, Mondadori, Milano.

Dell'Antonio A. (1986), Le problematiche psicologiche dell'adozione nazionale e internazionale, Giuffrè, Milano.

Galli J. E Viero F. (2001), Fallimenti adottivi. Prevenzione e riparazione Armando Editore, Roma.

Monaco M.F., Castellani P.P. (1994), Il figlio del desiderio. Quale genitore per l’adozione?, Ed. Bollati Boringhieri, Torino.
 Dott.ssa Barbara Leonardi
Centro di Psicoterapia Familiare

martedì 21 gennaio 2014

IL LUTTO

AFFRONTARE UNA PERDITA


“Tutto ciò che ci è più caro ci può essere strappato;
ciò che non può essere tolto è il nostro potere di
scegliere quale atteggiamento assumere dinanzi
a questo avvenimento”
Victor Frankl



La morte è una tra le paure ancestrali più radicate negli esseri umani la quale, in ogni epoca e in ogni luogo, ha vissuto e vive di particolari rituali che vengono utilizzati per elaborarla, se non addirittura per esorcizzarla.
Il lutto è il sentimento di intenso dolore che si prova per la perdita di una persona cara ma può accompagnare anche altri importanti momenti di cambiamento e separazione quali un trasferimento geografico, un cambiamento nel proprio ruolo sociale, la fine di un lavoro, la nascita di un figlio malato o l'impossibilità di mettere al mondo un figlio, la separazione dal coniuge, ecc.
Vivere un lutto, implica la necessità di dover affrontare e sentire tutta una serie di sensazioni negative, che riguardano il dolore, la tristezza e la disperazione per l’accaduto. Questo dolore è talmente forte che alcune persone per evitare di star male, o per esser forti davanti agli altri, tendono a chiudere in un cassetto le emozioni più difficili e dolorose, facendo finta che ciò non sia accaduto, rischiando, in tal modo, di ottenere l’effetto contrario ossia aumentando la tensione psicologica e rallentando il processo di elaborazione del lutto stesso.
A chiunque sia mancato un figlio, un coniuge, un genitore, un fratello, un nonno, un amico, sente di aver perso una parte di se stesso e, com'è naturale, sperimenta un periodo di sofferenza e di difficoltà che porta a sentirsi soli e deprivati del suo affetto, della sua esistenza. Il senso di vuoto psichico, emotivo e, a volte, anche fisico, determina spesso un profondo stato di confusione tale da far sì che la persona si trovi senza più punti di riferimento.
Il dolore che si prova nell’elaborazione di un lutto è una reazione naturale e imprescindibile dell’essere umano e l’intensa sensazione di tristezza vissuta dopo la morte di una persona è spesso associata al dolore. Dolore che tocca il nostro passato e la nostra capacità di guardare avanti: non solo perdiamo il calore della presenza della persona amata, e con questa una parte di noi stessi e della nostra storia, ma anche lo sguardo in avanti che si esprimeva in progetti e prospettive.
Il lutto è la conseguenza di uno strappo, di una penosa lacerazione: ci sentiamo feriti nel corpo così come nel nostro modo di relazionarci agli altri, nella nostra possibilità di pensare al futuro come nei nostri sentimenti più intimi. E’ una ferita, il cui processo di cicatrizzazione e di guarigione richiede tempo e fatica, un vero e proprio lavoro per poter tornare a vivere una vita sicuramente molto diversa da quella di prima e che, con il tempo, si scoprirà essere densa di valore se solo si riesce ad integrare la perdita nella trama della nostra vita.
La sofferenza per la morte di una persona amata prende forme diverse a seconda del rapporto che esisteva con chi è scomparso, del modo in cui la persona è morta, di come ognuno di noi affronta le difficoltà, nonché di tanti altri fattori come l'età, la fede religiosa, l'identità di genere, il livello di istruzione, le  precedenti esperienze di perdita, le difficoltà legate alla situazione generale e il tipo di sostegno a disposizione. L'esperienza della morte sarà, dunque, raccontata e vissuta da ognuno di noi in modi diversi ma anche all'interno della stessa persona, ci saranno momenti in cui un’esperienza, una sensazione, un pensiero, prenderà il sopravvento su altri. Si vive sballottati tra periodi in cui si è sommersi da ondate di sofferenza, nella quale si perdono il senso e il valore del vivere, e momenti in cui si torna a vedere la luce e si può riprendere, anche se solo per un attimo, il respiro.
Benché ognuno di noi viva in modi diversi la sua sofferenza, ci troviamo tutti ad affrontare un percorso almeno in  parte comune, fatto di fasi diverse e ostacoli da superare che Kubler-Ross teorizza in cinque fasi:

1.    Negazione/Rifiuto (in principio si nega il lutto come naturale meccanismo di difesa);
2.   Rabbia (quando si realizza la perdita, subentra un enorme carico di dolore che provoca una grande rabbia alle volte rivolta verso se stessi o persone vicine o, in molti casi, verso la stessa persona defunta);
3.   Negoziazione (si tenta di reagire all’impotenza cercando delle risposte o trovando soluzioni per spiegare o analizzare l’accaduto);
4.   Depressione (ci si arrende alla situazione razionalmente ed emotivamente);
5.   Accettazione (si accetta l’accaduto, riappacificandosi con esso, spesso sperimentando fasi di depressione e rabbia di natura moderata, volte a riconciliarsi definitivamente con la realtà).

L’elaborazione del lutto è un processo che viene vissuto da ognuno di noi in modi differenti e tali fasi non vengono attraversate da tutti e non necessariamente in tale ordine. Non è detto, infatti, che “piangere” o “deprimersi” sia un passaggio obbligato, così come, non sempre di arriva alla fase di accettazione. Ciò non vuol dire che il lutto resti irrisolto o che si debba intervenire necessariamente per paura di conseguenze o intoppi futuri nel benessere psicofisico della persona. Ogni persona ha bisogno del suo tempo e dei suoi spazi. Solo con il passare del tempo cambia il rapporto con il proprio dolore: lo stato di sofferenza si attutisce e gradualmente la vita comincia ad apparire meno vuota. Non c'è nulla che possa sostituire chi si è perduto: la sofferenza non può essere evitata né negata. E' necessario appropriarsi del proprio dolore, addomesticarlo, renderlo pensabile e vivibile aspettando che si verifichi quella trasformazione per cui la pena e la disperazione non vengono cancellate ma si tramutano in forza e ricchezza interiore. Il contatto con la morte, infatti, contiene, in sé, la possibilità di un'esperienza radicalmente trasformatrice.

Una donna, in preda alla disperazione per la perdita dell'unico figlio, si recò da un vecchio saggio per chiedere un incantesimo che lo riportasse in vita. Il saggio, dopo un lungo silenzio, disse: “Portami un seme di senape dalla casa dove non c'è mai stata la sofferenza: con quello porterò via il dolore dalla tua vita”. La donna si mise in cammino e presto scoprì che ogni casa aveva sofferto i suoi drammi: colpita dalla visione di tanta sofferenza, si fermò a soccorrere gli altri. E ne fu così coinvolta che dimenticò di cercare il  seme magico, senza capire ciò che aveva tolto la disperazione dalla sua vita.
(Antica storia cinese)

 Dott.ssa Teresa Giuzio
Centro di Psicoterapia Familiare

giovedì 16 gennaio 2014

LEGGERE I SENTIMENTI: LA SODDISFAZIONE


SODDISFAZIONE




La soddisfazione è un’esperienza soggettiva di bassa intensità appartenente al sentimento della gioia. E’ l’appagamento di un'esigenza, di un'aspettativa, di un desiderio, vale a dire quando ottengo ciò che desidero e voglio.
Il termine soddisfazione, viene, solitamente utilizzato per designare un'esperienza soggettiva di piacere, costituita per lo più dall'emozione che accompagna il raggiungimento di una meta.
Per sentirsi soddisfatti, però, le cose devono andare nello stesso identico modo in cui le abbiamo immaginate; “voglio che le cose vadano come mi aspetto e reagisco quando ciò non avviene”.
Non si è soddisfatti perché si gioca una partita, ma se la si vince o se si viene premiati. Non si è soddisfatti per le cose che si imparano, ma se si supera l’esame o se si prende un ottimo voto.
La soddisfazione, quindi, passa dalla pretesa che tali cose si realizzino, una continua corsa a fare di più, sempre di più o per avere di più, sempre di più. Proprio per tale pretesa che essa è spesso subdola: sono soddisfatto di aver vinto una gara o aver superato un esame, e adesso? La soddisfazione dura poco e subito nasce una nuova idea da realizzare, una nuova pretesa da soddisfare. Come un cane che si morde la coda la soddisfazione personale ci impone di continuare a correre per realizzare altri traguardi.
In tal modo, la soddisfazione rischia, talvolta, di divenire una trappola: come un criceto corriamo nella ruota sempre più veloce, senza renderci conto che così facendo non godremo mai del panorama che ci circonda. Quindi, se la soddisfazione diventa un imperativo categorico, perdiamo completamente la nostra libertà. È giusto lottare per le cose in cui crediamo ma, nello stesso tempo, è sciocco attaccarci ad esse e pretendere che il mondo si sottometta al nostro volere.


Dott.ssa Teresa Giuzio
Centro di Psicoterapia Familiare

martedì 14 gennaio 2014

LEGGERE I SENTIMENTI: LA CALMA

CALMA



La calma sconcerta la collera.
(Maxence Van der Meersch, Perché non sanno quello che fanno, 1933)

La calma è il sentimento a bassa intensità appartenente alla gioia.
E’ l'espressione di uno stato di sanità e di benessere in cui lo stato interiore è abitato da una condizione di pace e di armonia priva di paura e di ansietà.
La vita è ritmata da momenti più o meno stressanti, più o meno felici e più o meno prevedibili. Per affrontarli, bisogna imparare a controllarti, a dosare le emozioni, le reazioni, e a non abbattersi dinanzi al primo ostacolo. In tali situazioni, infatti, mantenere la calma è indispensabile per vivere sereni. Così, se resti bloccato nel traffico o sull'orlo dell'esaurimento nervoso perché i tuoi figli urlano da un'ora, la soluzione migliore non è quella di metterti a urlare pure tu ma trova il tempo di respirare profondamente prima di dire o di fare qualunque cosa; esamina la gravità della situazione e pensa ai mezzi a tua disposizione per risolvere il problema. Se riesci a farlo, sei già sulla buona strada anche perché in un mondo in cui tutto va di fretta, il silenzio è raro e trovare momenti di calma può essere complicato.
Ognuno di noi vorrebbe trovare più spazio per la calma, per quei momenti in cui si è in grado di fermarsi e osservare ciò che accade intorno a sé, ma non si tratta di qualcosa a cui solo poche persone possono accedere, chiunque può scegliere di essere calmo e di rendere la tranquillità il suo approccio alla vita. Inoltre le persone calme hanno la capacità di rimanere imperturbabili e concentrati anche durante i momenti difficili e riescono ad influenzare gli altri in un modo positivo e rassicurante soprattutto in un mondo così, dove non è sempre tutto così facile. Chi riesce a mantenere la calma rimane padrone di se stesso e questa loro capacità è fonte di ammirazione per la maggior parte di noi e spesso ci sentiamo grati per essere così vicini a tale tranquillità, la quale, d’altra parte, è una qualità che va ricercata e sviluppata.


Dott.ssa Teresa Giuzio
Centro di Psicoterapia Familiare

lunedì 13 gennaio 2014

LEGGERE I SENTIMENTI: IL PANICO

PANICO


I problemi sorgono soltanto se agiscono esclusivamente in profondità e non li prendiamo nelle nostre mani in modo da dare loro una forma e una direzione precise: “Se eludiamo questo compito, essi ci trascinano a rimorchio e noi diventiamo le loro vittime: li si può paragonare a una slitta lanciata a grande velocità giù per una china coperta di neve, senza nessuno alla guida. Dobbiamo piantarci saldamente in testa alla slitta, con la briglia in mano, e non sedere dietro o, peggio, cercare di non salirci affatto, perché così facendo si finisce per essere presi dal panico ".
Carl Gustav Jung


Il panico è un sentimento ad alta intensità appartenente alla paura. Il termine “panico” deriva dal nome del dio Pan (il dio dei boschi), una divinità greca raffigurata con corna e piedi di capra, che con il suono della zampogna incuteva un improvviso spavento. Si diceva che chi lo avesse incontrato nei boschi fosse impazzito e fuggito per la paura. Infatti il panico nasce a fronte di un pericolo, reale o presunto, che può portare a comportamenti avventati o inconsulti ed è costituito da un preciso periodo di intensa paura o disagio, agitazione, tremore, sudorazione, forte tachicardia.
Le persone prese dal panico hanno pensieri come “Avrò un infarto” o “Ora svengo”, pensieri così reali da chiamare l’autoambulanza o da andare in ospedale. Questo modo di pensare contribuisce a peggiorare i sintomi e di conseguenza i pensieri trasformando il singolo attacco di panico in un vero e proprio disturbo. Spesso si tenta di fuggire dalla situazione o dalle persone che provocano malessere mettendo in atto meccanismi rassicuranti come il portarsi con sé medicinali, se si teme un attacco di cuore.
È evidente che una simile modalità di comportamento sia molto limitante, senza considerare che potrà creare serie difficoltà nei rapporti interpersonali, soprattutto se si arriva a non uscire più di casa causata dalla paura di un imminente, nuovo, attacco.
Riassumendo, la paura patologica, comunemente detta panico, si può definire come il risultato del complesso processo di relazioni che l’individuo ha con se stesso (il controllo che fa perdere il controllo), con gli altri (la richiesta di aiuto e di rassicurazione che fa sentire incapaci di fare da soli) e con il mondo (l’evitamento delle situazioni temute che invalida).
Prendiamoci, dunque, una pausa di riflessione ed evitiamo di fare calcoli e proporzioni a caso sperando di imbroccare la via giusta: è facile rendersi conto di quanto fallace sia questa speranza tenendo conto delle infinite possibilità che ci sono e soprattutto del fatto che il panico e la fretta sono cattivi consiglieri e portano quasi inevitabilmente a perdersi.


Dott.ssa Teresa Giuzio
Centro di Psicoterapia Familiare

sabato 11 gennaio 2014

LEGGERE I SENTIMENTI: L'OTTIMISMO

OTTIMISMO


Anche quando tutto sembra non andare per il verso giusto, non bisogna scoraggiarsi piú di tanto, né smettere di pensare a una possibile svolta del destino capace di tramutare tutto il nostro male in peggio. Mai abbandonare, cioè, il proprio pessimistico ottimismo.
Giovanni Soriano, Malomondo, 2013



L'ottimismo è uno stato d’animo di media intensità appartenente al sentimento della gioia.
Esso può essere definito come un atteggiamento che si realizza sia nel modo di pensare e sia nel modo di vivere, il quale rende le persone forti, positive, costruttive, generose e carismatiche. Questo atteggiamento è contagioso e chi ne viene a contatto non può che sviluppare energia, ironia e serenità.
Gli ottimisti, infatti, tendono a guardare "il lato positivo delle cose" e ad assumere la buona fede nelle persone oltre che a godere di uno stato di salute migliore rispetto la media. I loro elemento distintivo è la loro peculiare gestione mentale ed emotiva rispetto sia alle avversità che alle opportunità, la quale li porta ad essere convinti di poter esercitare un significativo e determinante controllo degli eventi che fanno parte della loro vita. Nel convincimento di essere determinante nella capacità di gestire la propria vita, l’ottimista mobilita maggiore impegno e si attribuisce maggior merito nei successi registrati oltre a percepire un maggiore “spazio di manovra” nelle situazioni problematiche che incontra (in altri termini ha maggior fiducia in se stesso): "Non sono le circostanze a creare me, io creo le mie circostanze"; “Tutto è possibile".
L’ottimismo è un tesoro molto prezioso, basta essere ottimisti in modo equilibrato. Cosa vuol dire essere un ottimista assennato? Significa accettare con razionalità e saggezza sia il buono sia il cattivo che la vita ci porta; prepararsi al peggio ma sperare per il meglio.

L’ottimismo è una nostra inclinazione naturale a vedere le cose in un modo più adattivo, a puntare più sulla speranza di successo che sulla paura del fallimento, una sorta di effetto placebo con il quale coltiviamo il nostro senso di efficacia e di controllo nei confronti degli eventi della vita. E’ grazie all’ottimismo che abbiamo successo nel mondo accademico, nello sport e in politica anche se il suo beneficio più sorprendente e diretto è quello relativo la salute, ma, ricordiamo, che essere ottimisti non significa essere estroversi, il mondo è pieno di ottimisti introversi.

Dott.ssa Teresa Giuzio
Centro di Psicoterapia Familiare

giovedì 9 gennaio 2014

LEGGERE I SENTIMENTI: L'OSTILITA'

OSTILITA’


“In una seppur motivata ostilità non è proficuo il rancore nascosto, ma un aperto chiarimento; perché produce l’emozione necessaria che chiarisce i fatti, separa il giusto da quello ingiusto, e fa vedere quello che c’è da vedere”
Richard Wagner



L'ostilità è un sentimento ad alta intensità appartenente alla rabbia. E’ un atteggiamento o un comportamento malevolo (da nemico) verso una persona o, spesso, la si subisce da parte di persone che la hanno adottata come stile di relazione con gli altri. La persona che utilizza l’ostilità come forma relazionale, lo fa solo per proteggere la sua identità dalla squalificazione derivante da esperimenti sociali finiti male.
Infatti l’ostilità viene utilizzata per tenere sotto pressione gli altri ed estorcere indulgenza e rassicurazioni sul fatto di essere accettati all’interno di una rete sociale sicura dalla quale si ha paura di essere emarginati o messi in condizione di non poter ricevere le ricompense che si pensa di meritare. Nel caso tali paure venissero confermate e la persona ricevesse risposte aggressive o minacce di abbandono, la porterebbero in una condizione totale di caos e confusione di tipo psicotico. L’ostilità nella sua forma aggressiva è decisamente insopportabile, ma anche nelle altre maniere in cui si manifesta rende decisamente sgradevole l’esistenza di coloro che si trovano a subirla.
Bisognerebbe fare appello all’impegno e alla capacità di trovare soluzioni nuove e originali che, seppur non la elimineranno.


 Dott.ssa Teresa Giuzio
Centro di Psicoterapia Familiare

mercoledì 8 gennaio 2014

TERZA ETA'

L’ANZIANO E LO SPAZIO




L’innalzamento della vita media dei cittadini è una tendenza comune a numerosi Paesi sviluppati e presenta profili economici e sociali di grande rilievo.
Una parte degli anziani, tra i 65 e i 79 anni, è spesso autosufficiente e coloro che hanno redditi medi non hanno particolari difficoltà, soprattutto se vivono in famiglia, costituiscono una risorsa importante in quanto spesso dediti alla cura dei nipoti e all’assistenza dei familiari più anziani o disabili. Sempre più spesso sono coinvolti in attività di interesse sociale e costituiscono una risorsa importante nel volontariato.
Posto che l’Italia è il Paese dell’Unione Europea con la più alta aspettativa di vita, la situazione nazionale viene raffigurata in termini positivi, con qualche preoccupazione legata all’aumento della richiesta di servizi sociali connessa all’invecchiamento della popolazione.
Di fronte a questo fenomeno gli assetti sociali e le istituzioni risultano poco flessibili e mostrano uno scarso adattamento, spesso è presente un'insufficiente preparazione culturale.
Oggi una persona ultrasessantacinquenne, rispetto al passato, è generalmente molto più attiva, informata, attenta a se stessa e ai propri bisogni, ma non è cambiata la sua considerazione sociale, ancora fortemente legata a una certa rappresentazione stereotipata della fase conclusiva della vita (ricordi, fatica, solitudine, disabilità, sensazione di inutilità).
L'inevitabile riduzione delle capacità sensoriali, cognitive e prestazionali sono una premessa perché si crei, nell'interiorità psichica della persona anziana, una modificazione della percezione spaziale e dell'esperienza integrata di spazio e tempo.
Affrontare la tematica dell’anziano e delle interrelazioni che egli mantiene con l’ambiente significa dover trattare non solo di una esperienza soggettiva dello spazio, ma anche dover superare il pregiudizio che vede l’anziano unicamente come oggetto passivo del cambiamento.
Diverse rotture simultanee segnano il passaggio dall’età matura alla vecchiaia, queste intaccano necessariamente lo “spazio di vita” dell’individuo e  inducono a vivere in ambiti spaziali sempre più ristretti (es. quartiere, casa, stanza). Questo progressivo “ritiro” riguarda almeno tre livelli:
·        Il primo si riferisce al “macro-sistema-sociale”, in relazione alla perdita, da parte del soggetto, dello status precedente a causa del pensionamento.
·        Successivamente vi sono cambiamenti nel “medio-sistema ambientale”, dovuti alla minore possibilità di interscambio con amici e parenti.
·        Il terzo ambito, quello del “micro-sistema”, riguarda tutti quei cambiamenti nella vita privata dell’anziano che lo pongono in un ruolo diverso e a volte periferico nei confronti della famiglia: morte del coniuge, matrimonio dei figli…
Cause storiche, legate all’evoluzione socio-economica, possono venire chiamate in causa per spiegare l’isolamento dell’anziano, infatti è con l’avvento della società industriale che si comincia a parlare di terza età. Scompaiono con la famiglia patriarcale, tipica della società contadina, le caratteristiche di co-abitazione, con-vivenza e collaborazione (Baracco,1978).
Nella famiglia nucleare l’anziano si trova a vivere isolato dalla famiglia dei figli e  spesso in una condizione di solitudine in quanto la struttura sociale non è in grado di sopperire al bisogno di relazioni sociali, soprattutto quando vengono meno, con il pensionamento, quelle connesse con i luoghi di lavoro.
Il modello di vita della società industriale permette a malapena il mantenimento delle relazioni di vicinato, all’anziano non viene più riconosciuta una reale e attiva interazione con l’ambiente.
In termini di “spazio” l’anziano vede limitarsi sia il rapporto con lo “spazio sociale” mediante una diminuzione delle possibilità di interazione con gli altri, sia con lo “spazio abitativo” quando deve “scegliere” il ricovero in istituti.
La maggior parte degli anziani rifiuta la casa di riposo, ha scarso interesse verso la convivenza con i figli e tende al mantenimento della propria casa, anche di fronte a problemi di salute.
L’abitazione,rappresentando una continuità con il passato, riveste un’importanza decisiva sullo stile di vita di un anziano. Ogni spazio con il quale l’individuo viene a contatto diviene uno “spazio vissuto”, si può parlare di vere e proprie “mappe mentali” diverse per ogni individuo.
Quindi lo spazio non deve essere inteso astrattamente, ma come spazio vissuto, caricato di significati emozionali e di ricordi, sperimentato attraverso le azioni e il proprio corpo.
L'anziano chiudendosi allo spazio esterno ed assistendo alla senescenza del proprio corpo, incrocia una esperienza modificata di corporeità e di spazio-temporalità nella quale il tempo appare accorciato e gli spazi ridotti.
Vivere in uno spazio non vuol dire solo appartenervi fisicamente, ma modificarlo, determinarlo, in sostanza appropriarsene, realizzandosi nell'incontro con gli altri.
La spazialità deve quindi avere un "carattere affettivo " e permettere una possibilità relazionale.
Risulta quindi facilmente comprensibile la difficoltà della persona anziana ad adattarsi ai cambiamenti di abitazione, agli spostamenti d'ambiente o a semplici modificazioni della organizzazione della vita quotidiana.
Questa difficoltà nei confronti del cambiamento rivela il bisogno di abitare uno spazio familiare, non anonimo, circondato da consuetudini, usi ed oggetti che definiscano l'area di sicurezza ed il rispetto di sé stesso e della propria storia.
Lo spazio è quindi anche spazio di relazione ed interazione, particolarmente evidente nelle situazioni comunitarie.
L'atteggiamento nei confronti della persona anziana, anche da parte di chi è deputato a funzioni di assistenza, tende spesso a metterne in evidenza la parte deficitaria e malata, generando un rapporto poco paritario e di necessità, causa di frustrazione e di risentimento. Basti pensare al disinvolto uso del " tu " da parte del personale medico e alla eccessiva, dolorosa familiarità e disinvoltura con la quale vengono affrontate situazioni e tematiche emotivamente coinvolgenti, riguardanti il rispetto del proprio corpo, dell'intimità o dei propri segreti.
È possibile riscontrare un’analogia straordinaria nell'atteggiamento abitualmente mantenuto nei confronti dei soggetti disabili o dei pazienti psichiatrici e comprendiamo, quindi, come il ricovero per una causa “x” venga spesso vissuto e, di conseguenza rifiutato, come un esproprio totale della propria vita e della propria capacità decisionale, perdendo in maniera non reversibile la possibilità di autodeterminarsi e decidere rispetto al proprio codificato sistema di valori.
Risulta fondamentale, per la serenità dell’anziano, la creazione di uno spazio di “relazione”, formato dall’insieme delle persone che sono significativamente legate da vincoli affettivi.
Lo sviluppo di questo “spazio” può avere riscontro anche nel modo in cui viene progettato lo spazio abitativo, favorendo criteri mediante il quale il territorio individuale e il territorio di gruppo trovano il modo di incontrarsi e separarsi armonicamente.
La dimensione “pubblica” della condizione anziana diventa di grande importanza, poiché fino ad alcuni anni fa era unicamente collegata a interventi assistenziali.
La vecchiaia è tempo che passa, anzi che è passato, oppure tempo che manca, oppure è tempo perduto nel senso di non partecipato o ricordato, quasi non vissuto, ma è anche tempo scandito, determinato, rigido in certe organizzazioni di vita istituzionali.
Il tempo è tuttavia anche una delle possibilità della vecchiaia, tempo per riposare e per ricordare, per meditare, tempo per insegnare, per testimoniare, quindi non solo tempo come perdita, malinconia ed oblio, ma come ricchezza, potenzialità e sviluppo.
Pensare, o meglio ripensare al tempo ed allo spazio nella senilità, consente di scoprire e di riappropriarsi di forme e dimensioni di vita in altro modo inevitabilmente perdute, necessarie e feconde anche per chi si occupa di terapia ed assistenza alla persona anziana.
Consentire alla persona anziana di mantenere le proprie residue capacità decisionali, permetterà anche a chi se ne prende cura di non vivere in maniera totalizzante, onnipotente ed alla lunga eccessivamente gravosa, il rapporto con la persona anziana e con il suo bisogno di cura.
L'incontro con problematiche tanto complesse e coinvolgenti, quali quelle connesse all'invecchiamento richiede grande sensibilità, ma anche la consapevolezza di operare tenendo profondamente conto delle esigenze e delle progettualità dell'altro, anche quando queste paiano poco condivisibili, adoperando empatia e rispetto ed arrogandosi il meno possibile decisioni gravi, qualche volta in grado di sconvolgere la vita degli individui.

Dott. De Leonardis Gianfranco

Centro di Psicoterapia Familiare

martedì 7 gennaio 2014

LEGGIAMO I SENTIMENTI: L'ANSIA

ANSIA

L'ansia non ci sottrae il dolore di domani, ma ci priva della felicità di oggi
Leo Buscaglia



L'ansia indica uno stato d’animo di media intensità appartenente al sentimento della paura, il quale presuppone la presenza di una battaglia interiore. E’ uno stato psichico, prevalentemente cosciente, caratterizzato da una sensazione di paura, più o meno intensa e duratura, che può essere connessa o meno ad uno stimolo specifico (interno o esterno). L’ansia è una reazione emotiva ad un pericolo percepito che non è così ovvio agli occhi degli altri; capita molto spesso, infatti, che gli altri ci prendano in giro quando scoprono che andare al supermercato o guidare l’automobile ci provoca tanta agitazione. Questo fa si che l’ansia venga vissuta come un’esperienza molto spiacevole, soprattutto perché ci fa sentire delle persone diverse, strane, a volte addirittura pazzi.
Chi soffre d’ansia cerca in tutti i modi di nasconderla agli altri, proprio perché gli altri ci hanno insegnato che ci si deve vergognare di queste cose. Ed è per questo che l’ansioso spesso vive se stesso come una persona diversa dagli altri, rifugiandosi nella propria solitudine.
L'ansia, invece, è un fenomeno normale di cui tutti facciamo esperienza in continuazione seppure in misura e con frequenza molto variabile, lo stesso diceva che L'atto della nascita è la prima esperienza d'ansia e quindi la fonte e il prototipo della sensazione d'ansia. E’, quindi, una dimensione inevitabile del vivere umano con cui è necessario confrontarsi quotidianamente.
Quindi, finché si mantiene a livelli normali, l’ansia è uno stimolo essenziale per la buona riuscita delle piccole e grandi attività che compongono il nostro quotidiano, se, invece, produce una reazione eccessiva, immotivata o sproporzionata rispetto alle situazioni, l'ansia sfocia nel patologico.


 Dott.ssa Teresa Giuzio
Centro di Psicoterapia Familiare