venerdì 28 febbraio 2014

PSICOLOGIA DELLA FAMIGLIA

Lettino o lettone: cosa c'è sotto?




Le difficoltà del sonno nei bambini possono essere molto diverse tra loro. Mentre alcuni si addormentano facilmente e dormono profondamente, altri non andrebbero mai a dormire e hanno il sonno leggero. C’è poi chi si sveglia regolarmente ogni notte e richiede la presenza del genitore per riaddormentarsi mentre altri manifestano queste difficoltà solo episodicamente. Ad ogni modo l'andare a dormire può creare nel bambino una situazione di ansia da separazione perché l'addormentamento rappresenta sempre un momento delicato.
Ci sono poi situazioni stressanti in cui i bambini si sentono troppo agitati per andare a dormire e possono aver bisogno della presenza rassicurante del genitore. È il caso, per esempio, del periodo in cui è in arrivo o è nato da poco un fratellino. La paura di essere escluso e il volersi assicurare il proprio posto possono ripercuotersi sia sull'andare a dormire che sulla qualità del sonno del bambino.
Il medesimo problema può presentarsi in periodi in cui la famiglia è in difficoltà (problematiche economiche, malattie, separazioni ed altre situazioni particolarmente stressanti che assorbono completamente i genitori). In questi casi, se un bambino non vuole stare solo e richiede la presenza della mamma e del papà, è perché ha bisogno di rassicurarsi sul fatto che continua ad avere uno spazio nella loro mente.
È importante fare queste distinzioni e comprendere se ci si trova nell’ambito delle normali vicissitudini quotidiane o si è di fronte ad un problema che dovrebbe essere affrontato con un aiuto esterno.
Diverso è il caso in cui la difficoltà ad addormentarsi da solo è continuativa e presente sin dalla nascita.
Anche senza entrare in aspetti più specifici, va premesso che il sonno ha un suo ciclo in cui le varie fasi si alternano, con risvegli parziali tra l’una e l’altra. Perciò il dormire per un periodo prolungato richiede al neonato la capacità di passare da una fase all’altra, anche cambiando posizione o succhiando, senza risvegliarsi completamente. Si tratta di un traguardo evolutivo precoce, che i neonati raggiungono in genere già nei primissimi mesi, alcuni fin dai primi giorni di vita.
Le difficoltà nel raggiungimento di questa importante tappa maturativa possono nascere da una particolare sensibilità del bambino, come nel caso dei bambini nati prematuri, ma in genere perdurano sulla base di un insieme di fattori in cui l'ipersensibilità del neonato si combina con ansie specifiche dei genitori, per esempio sullo stato di salute del figlio e/o sulla propria capacità di essere un buon genitore. Quando ciò avviene, l’acquisizione di questo importante traguardo evolutivo è impedita o disturbata e si produce un circolo vizioso di rassicurazione reciproca che comporta il bisogno di addormentarsi unicamente in presenza dell’altro.
L’incapacità a dormire da soli, quando non è la manifestazione di una regressione occasionale dovuta ad avvenimenti o situazioni particolari, va letta come un segnale di disagio e va considerata con la dovuta attenzione, anche per le conseguenze che essa può comportare in termini di stanchezza dei genitori e per il rischio di un deterioramento progressivo dei rapporti tra i componenti della famiglia. 
Se il bambino non vuole dormire nel suo letto bisogna considerare che esiste un’ampia gamma di situazioni relative sia al comportamento notturno del bambino, sia alle risposte dei genitori.
Ci può essere il caso del bambino che si addormenta unicamente nel lettone in presenza di uno dei genitori o di entrambi e successivamente portato nel proprio letto, a volte invece prosegue il suo sonno in quello dei genitori.
C’è poi la situazione in cui il bambino si addormenta nel proprio letto, ma si sveglia durante la notte e va nel lettone. Alcuni genitori dopo un po’ riportano il figlio nella sua camera mentre altri lo lasciano nel loro letto. In questo caso, non di rado, succede che uno dei genitori, solitamente il padre, finisca nel letto del bambino cedendo il proprio posto nel letto matrimoniale al figlio.
Possiamo addirittura avere situazioni in cui c’è più di un bambino a difendere ogni sera il proprio posto nel lettone, che diventa, sempre più, un territorio di conquista.
Generalmente i genitori spiegano la difficoltà nel far dormire il bambino nel suo letto con la propria stanchezza, con la comodità di averlo accanto senza dover stare svegli ad aspettare che egli si addormenti e con altri argomenti che, però, nella maggioranza dei casi hanno origine da un problema personale a porre dei limiti e/o da un problema di coppia a salvaguardare la propria intimità. Può accadere che alcune coppie di genitori “utilizzano” la scusa del bimbo nel lettore per celare l’esistenza di una crisi tra loro. Bisogna chiedersi, quindi, se il bambino viene accolto nel letto di mamma e papà soltanto per rispondere al suo bisogno o anche a quello della coppia. Solitamente i genitori sono quasi tutti ignari che ci possa essere un collegamento tra le loro difficoltà matrimoniali e la presenza di uno più figli nel loro letto.
Il dormire in tre viene spesso taciuto dai genitori ed è un dato a cui non viene assegnata la dovuta importanza e nella maggior parte dei casi i genitori se ne vergognano. Eppure il "chi dorme con chi" è una delle informazioni fondamentali per capire il funzionamento di una coppia, in quanto rappresenta il segnale indicatore di altri problemi celati.
I conflitti coniugali legati al passaggio dall’essere diventati genitori oltre che coppia, le rivendicazioni reciproche o quelle estese al gruppo familiare allargato, sono spesso le vere ragioni per cui uno dei due partner si allontana e si “rifugia” in un altro letto.
Il più delle volte accade che sia la donna che fatica a conciliare il suo nuovo ruolo di mamma con quello di moglie e finisce per utilizzare la presenza del bimbo nel letto per negare, inconsapevolmente, al suo partner momenti di intimità.
E' importante che la donna non lasci che il suo desiderio femminile venga assorbito nel desiderio materno e ricordi che l'essere madre non significa accantonare la Donna. Anche i papà, da parte loro, possono contribuire mantenere questa situazione di “separazione notturna”: potrebbero, infatti, essere meno “interessati” alle compagne/mogli che cominciano a vedere, anche prima della nascita del bambino, più come mamme che come donne.
E' importante che il bambino capisca, con l'aiuto dei genitori, dove collocarsi all’interno della famiglia e che non cominci a considerarsi il partner della mamma. Dovrebbe imparare  che il suo posto non è TRA mamma e papà, ma CON mamma e papà.
Intorno ai 3 anni, quando il bambino attraversa la fase edipica e cerca di intrufolarsi maggiormente nel lettone, i suoi tentativi dovrebbero essere scoraggiati da entrambi i genitori in modo sereno come “coppia alleata”.
La differenza dei confini tra il mondo del bimbo e quello di mamma e papà è fondamentale in questa fase. Per lui potrà essere doloroso vivere l'esclusione ma imparerà che questa è relativa soltanto ad una parte della relazione con i genitori, quella coniugale. Anche Freud, il padre della psicoanalisi, scoraggiava l’insediamento notturno del bambino tra la coppia di genitori, ritenendo la delimitazione degli spazi personali una grande occasione di crescita per tutti i componenti della famiglia.
Queste situazioni complicate sono più frequenti di quanto si possa credere e, pur essendo originariamente connesse con ansie e tensioni dei genitori, una volta create, potrebbero finire per accrescerle ed esasperarle rendendo più difficile una generale pacificazione.
Se questi problemi perdurano è molto importante considerare che, con il passare del tempo e con la crescita del bambino, i nodi che queste situazioni creano nei rapporti tra i componenti della famiglia potrebbero diventare sempre più aggrovigliati e difficili da sciogliere.
Sempre più spesso la vita di coppia dei genitori è pesantemente condizionata dalla presenza notturna del figlio o dei figli e questa sorta di “abdicazione” dalle funzioni centrali per la vita personale e per l’armonia della coppia può essere vissuta come irrilevante e determinata dalle esigenze del bambino, come se l’essere genitori fosse incompatibile con le proprie esigenze di riposo e di intimità.
Potrebbe accadere che da parte delle coppie, per i motivi più diversi ma sicuramente da non sottovalutare, è presente una una rinuncia a porre dei limiti a salvaguardia dell’intimità che rappresenta sempre, anche dopo essere diventati genitori, il cuore della vita coniugale.
Questa, purtroppo, è una rinuncia che non va a vantaggio di nessuno e che, al contrario, per la perdita dei confini generazionali, per la confusione dei ruoli e per le ansie e le rivendicazioni che si vengono a creare, compromette il benessere di grandi e piccoli. In queste condizioni, infatti, la confusione è tale che si potrebbe arrivare a sostenere che i bambini quando dormono non si accorgono di eventuali rapporti sessuali tra i genitori.
Dati clinici dimostrano quanto siano frequenti il turbamento e la confusione derivanti dall'esposizione precoce alla sessualità dei genitori. Ma, anche se il bambino non si svegliasse, perché rischiare di turbarlo, per di più condannandosi ad una vita sessuale clandestina? Tutto questo, anche se considerato marginale, andrebbe meglio indagato nell’ambito di una consultazione psicologica.
Bisogna considerare che la stanza dei genitori e il letto matrimoniale definiscono e rappresentano lo spazio privilegiato della coppia, spazio in cui l’uomo e la donna possono raggiungere un importante traguardo della maturità: sperimentarsi come adulti con una propria vita sessuale e, nello stesso tempo, come genitori. Non si tratta quindi di escludere i figli né di farli piangere da soli nel loro letto, ma semplicemente di garantire un proprio spazio a ciascun membro della famiglia.
Creare la distinzione di spazi contro la confusione, proteggere l’intimità della coppia e della propria sessualità, porre i giusti limiti senza pensare che questo pregiudichi il rapporto con i figli, sono indice di equilibrio e garanzia di un sereno rapporto di coppia che può sostenere un sano sviluppo del bambino.
Dott.ssa Barbara Leonardi




mercoledì 12 febbraio 2014

INFANZIA

LA FUNZIONE DEL CIUCCIO


L'uso del ciuccio è da sempre un argomento che si trova in mezzo a due posizioni contrapposte: chi è a favore e chi lo condanna.
I bambini nascono con l’istinto della suzione e il succhiare rappresenta, fin dall’inizio della vita, il mezzo per soddisfare il bisogno primario della nutrizione raggiungendo o ripristinando, al tempo stesso, uno stato di benessere. La suzione "non nutritiva" ha quindi lo scopo di calmare e di tranquillizzare il bambino nei momenti più difficili e rappresenta per lui un'attività gratificante.
Dal punto di vista psicologico il ciuccio desta un particolare interesse. Esso, infatti, richiama facilmente alla mente la nota “fase orale” elaborata da S. Freud, ossia la prima fase dello sviluppo psicosessuale infantile che copre la fascia d'età tra i 0 e i 18 mesi di vita. Quest'ultima si caratterizza per la predominanza dell’istinto innato della suzione in cui la modalità fondamentale di relazione con il mondo esterno è di tipo nutritivo (seno materno o biberon), e la bocca, attraverso la suzione, diventa la parte del corpo attraverso la quale il bambino sperimenta il piacere attraverso il cibo, ma anche attraverso la sensazione conforto e calma che prova al tatto.
Mettersi le cose in bocca, cioè “assaggiarle”, risponde ad un bisogno innato e per questo il ciuccio per i bambini è un ottimo strumento per alleviare qualsiasi malessere, diventando un modo per rassicurarli in assenza del contatto fisico con la figura materna.
Il ciuccio rappresenta, inoltre, un oggetto transizionale perché aiuta il bambino a staccarsi gradualmente dalla madre per acquisire una maggiore autonomia nel tempo.
I vantaggi del ciuccio possono essere molteplici:
· aiutare il bambino ad addormentarsi da solo
· aiutare il bambino a calmarsi (agevola il rilascio di serotonina)
· aiutare il bambino a tollerare maggiormente la momentanea indisponibilità della mamma
· aiutare la mamma a capire se il bambino neonato ha fame veramente (se rifiuta il ciuccio significa che ha davvero fame)
· aiutare la mamma nei momenti di difficoltà nella gestione del bambino;
· può essere tenuto maggiormente sotto controllo dall'adulto rispetto all'uso del pollice.

Anche se il ciuccio può essere un valido aiuto per la figura di attaccamento, è importante che il genitore impari a decifrare i segnali del bambino per capire quando ha veramente necessità del ciuccio e quando no. Non sarebbe costruttivo offrire il ciuccio in ogni momento della giornata e in ogni situazione di disagio per far star buono il piccolo. In questo modo non gli si permette di imparare a tollerare la frustrazione del momento e il genitore perde l’occasione per capire il significato della difficoltà che il bambino sta vivendo. L’uso ottimale del ciuccio dovrebbe limitarsi al momento della nanna e a situazioni di particolare disagio per il bambino.
L’utilizzo prolungato del ciuccio, oltre a creare il rischio di una sorta di dipendenza verso l'oggetto stesso, potrebbe causare un allungamento della fase orale e diventare un fattore di rischio in età adulta per un eccessivo attaccamento a comportamenti che coinvolgono l’utilizzo della bocca (problematiche quali alcolismo, tabagismo, logorrea patologica, disturbi del comportamento alimentari).
Per questo motivo diventa opportuno “salutare” il ciuccio verso i 2 anni e mai oltre i 3.
Ciò che è indispensabile in questo passaggio è:
· La consapevolezza dell'adulto. La consapevolezza del genitore è necessaria per aiutare il bambino a compiere questo grande “viaggio”.
La mamma deve chiedersi se è davvero pronta ad accompagnare il proprio bambino al saluto del ciuccio, utilizzando tutti e tre i propri Stati dell’Io (ovvero l'Io Genitore, l'Io Adulto e l'Io Bambino). L'Io Genitore va energizzato per avvicinarsi a delle regole chiare e protettive per sé e per il proprio bambino, facendo attenzione al repertorio di slogan e pregiudizi genitoriali tramandati dalle proprie figure di attaccamento (es. “Che brutto vedere dei bambini che sanno già camminare e parlare, con il ciuccio in bocca”). Allo Stato dell’Io Adulto spetta il compito di analizzare i dati di realtà inerenti le circostanze, come ad esempio l’età del bambino, il proprio tempo a disposizione e il periodo storico che sta vivendo la famiglia. Lo Stato dell’Io Bambino aiuterà il genitore ad entrare in contatto con la propria emotività in relazione al cambiamento da affrontare (ad es. una madre potrebbe mettersi in contatto con la sua paura di essere “abbandonata” se non accontenta il bambino oppure con la preoccupazione di non sentirsi una buona madre se non soddisfa le richieste di suo figlio).
Con i bambini è sempre meglio iniziare qualcosa solo se si è sicuri di portarla a termine: se si prova a togliere il ciuccio al bambino, per poi cedere quando lo richiede, questo può far passare un messaggio sbagliato, ovvero che il bambino se insiste aumentando i capricci e l’intensità del pianto, può ottenere ciò che vuole. Al secondo tentativo, quindi, il bambino potrebbe utilizzare un’escalation di pianto e capricci, rendendo più complicato il processo.
· La scelta del periodo giusto. È importante scegliere un periodo tranquillo per il bambino, che non coincida con altri grandi cambiamenti (es. momento in cui si sta togliendo il pannolino, inserimento al nido, nascita un un fratellino, separazione dei genitori).
· La partecipazione attiva del bambino. Per affrontare questo grande distacco in modo sereno è necessaria la partecipazione attiva del bambino che si deve sentire protagonista della scelta di abbandonare un oggetto così importante per sé ed evitare di toglierlo improvvisamente senza offrirgli alcuna spiegazione. Quando la scelta è volontaria e consapevole sarà sicuramente duratura e il bambino non lo cercherà più.
· La gradualità. Si può aiutare il bambino a staccarsi gradualmente dal suo “amico” riducendone inizialmente l’uso solo alla notte e toglierlo poi mentre dorme in modo tale da  associarlo solo all’addormentarsi e non al mantenimento del sonno.
· Il rinforzo positivo. Si possono utilizzare dei rinforzi positivi come dei piccoli premi ogni volta che il bambino rinuncia al ciuccio durante la giornata. I premi non devono necessariamente corrispondere a regali materiali, ma possono essere scelti tra le cose più piacevoli per il bambino (es. rimanere qualche minuto in più sull’altalena perché è stato bravo).
· Il dialogo. Si può iniziare a parlare con il bambino del modo in cui vuole staccarsi dal ciuccio e vedere come reagisce alla proposta. I genitori potrebbero utilizzare un po’ di creatività, anche perché ogni mamma sa che cosa è più piacevole proporre per il proprio bambino (es. potrebbe regalare il ciuccio ad un bambolotto oppure ad un animale allo zoo, darlo a Babbo Natale, stabilire una data-evento ben precisa).
· La pazienza del genitore. Si può anche aspettare che sia il bambino a decidere consapevolmente di essere diventato grande per il ciuccio e in questo caso non bisogna stressarlo (es. ripetendo più volte al giorno: “Quando leviamo il ciuccio?”) o sottoporlo a costanti critiche (“Un bambino grande come te ancora con il ciuccio!”). Questo atteggiamento, infatti, servirebbe solo ad umiliarlo e ad associare un senso di vergogna al gesto della suzione.
Non bisogna dimenticare che  l’abbandono del ciuccio ha a che fare con la dimensione della perdita e il bambino potrebbe vivere un sottile senso di lutto per la scomparsa di un oggetto fondamentale che lo ha accompagnato in vari momenti importanti e per molto tempo.

I punti sopracitati, quindi, rappresentano le basi che non dovrebbero mancare per rendere il “saluto al ciuccio” un processo di crescita e di cambiamento costruttivo sia per il bambino sia per il genitore che lo accompagna. 

Dott.ssa Barbara Leonardi
Centro di Psicoterapia Familiare

giovedì 6 febbraio 2014

VIOLENZA DOMESTICA - II PARTE

INNAMORARSI DEL PROPRIO CARNEFICE? 




Era il 1973 quando a Stoccolma, presso la Kreditbanken fecero irruzione dei rapinatori i quali, tennero i dipendenti in ostaggio per sei giorni.  Dopo la liberazione, le vittime chiesero alle autorità clemenza per i propri rapinatori, mostrando di essere emotivamente legati agli stessi. Durante il periodo di incarcerazione, gli ostaggi mantennero dei contatti con loro andando frequentemente a trovarli, addirittura una ragazzi si fidanzò con un rapinatore. Come è possibile spiegare questo fenomeno?
Il criminologo che si occupò di questo caso, Nils Bejerot per definirlo, coniò  il termine “Sindrome di Stoccolma”. Quando vi è un elevato stress relativo ad una minaccia per la propria incolumità e per la propria vita, si crea una situazione di intensa paura, negazione della rabbia e dipendenza, tale dipendenza è un meccanismo di difesa, è una strategia di sopravvivenza in situazioni in cui non vi è possibilità di fuga. La vittima idealizza il proprio rapinatore, non ammette intrusioni esterne (es. polizia/ autorità giudiziaria), nutre sentimenti positivi nei suoi confronti fino ad un vero innamoramento.
La sintomatologia della Sindrome di Stoccolma può essere riportata alle mura domestiche con gli stessi meccanismi e stessa sintomatologia. Nelle donne maltrattate è una “strategia” per fronteggiare emotivamente il forte stress e le continue violenze. Lenore Wolker  la definisce come Sindrome della Donna Maltrattata chiarendo che, quando le donne non riescono a fuggire da una situazione di violenza, diventano paurose, passive, depresse, remissive e psicologicamente paralizzate questo, rende la donna incapace di difendere se stessa e i figli.
Nella fase del ciclo della violenza, detta “luna di miele”, si ha un incremento dell’illusione che il carnefice possa cambiare e che si possa porre fine alla violenza. L’abusante nel contempo, attraverso la manipolazione psicologica e la violenza, crea un ambiente tale per poter controllare fisicamente ed emotivamente la sua vittima isolandola dal lavoro, dalla famiglia e dalle relazioni sociali. L’isolamento favorisce una forte labilità emotiva e la dipendenza dal proprio con il carnefice, la vittima pensa che la propria vita dipende esclusivamente da lui e l’unico modo per sopravvivere è essergli fedele. Quando si ha paura, l’impulso naturale è quello di cercare conforto e rassicurazione da chi ci è vicino, in questo caso, l’unica persona vicina alla vittima è lo stesso carnefice che viene umanizzato e reso positivo, oggetto di cure e di compassione.
Nei contesti legali è stata associata la Sindrome della donna maltrattata al Disturbo Post-Traumatico da Stress in quanto, l’esposizione alla manipolazione psicologica continua e alla violenza, comporta gravi traumi psicologici. Alla Sindrome della donna maltrattata si affianca la Sindrome dell’uomo maltrattato in quanto, anche gli uomini possono essere vittime di abusi anche se in questo caso sono per lo più di natura psicologica e non fisica.
Le donne sono vittime di soprusi e omicidi da parte del loro partner, otto volte più degli uomini. Quando la pressione psicologica è elevata, quando si è soli e ci si sente indifesi, quando lo stress è tanto e sembra che non vi siano vie d’uscita, la nostra mente cerca di tutelarci mettendo in atto dei meccanismi inconsci che possono sembrare paradossali. E’ difficile riconoscere situazioni di violenza in questi contesti ed è difficile avvicinare la vittima.
 Dott.ssa Desirè Roberto
Centro di Psicoterapia Familiare



mercoledì 5 febbraio 2014

LEGGERE I SENTIMENTI: L'IMBARAZZO

IMBARAZZO




Tipica emozione sociale di bassa intensità facente parte del sentimento della paura.
Paura connessa, soprattutto, alla percezione che si ha di se stesso e delle proprie caratteristiche in relazione agli altri.
 L’imbarazzo è uno stato più o meno intenso e di durata variabile (da pochi secondi a pochi minuti) che si manifesta esclusivamente in una situazione sociale, caratterizzato da modificazioni psicofisiologiche e manifestazioni comportamentali che esprimono disagio quali rossore, l’irrequietezza motoria, le alterazioni della voce
Sentirsi in imbarazzo non è per nulla piacevole ed è spesso determinata dal non sapere mai bene quali atteggiamenti o comportamenti adottare in una determinata circostanza; un classico esempio è quando ci si trova in ascensore con un estraneo.
 La persona imbarazzata attribuisce un’importanza esagerata e irrealistica a ciò che gli altri vedono realmente del suo aspetto e del suo imbarazzo che viene vissuto come una minaccia all’immagine della identità sociale desiderata. L’imbarazzo rivela, quindi, ciò che per noi conta, il valore che attribuiamo agli altri e alle cose e a tutti, proprio a tutti, è capitato di provarlo ma essendo una sensazione poco piacevole, spesso, si preferisce tutti ridere dell’imbarazzo degli altri, piuttosto che del proprio. La risposta più giusta in queste situazioni è quella di e ammettere che è stata effettivamente  un’esperienza terribile ma darle, al contempo, il giusto peso. In fondo le persone che mostrano imbarazzo per le loro “malefatte sociali” sono anche quelle che vengono apprezzate di più.

Dott.ssa Teresa Giuzio
Centro di Psicoterapia Familiare




martedì 4 febbraio 2014

PSICOSPORT

SPORT E SCARAMANZIA: IL LATO PSICOLOGICO


Come da definizione ufficialmente riconosciuta, la superstizione indica le credenze di natura irrazionale che possono influire sul pensiero e sulla condotta di vita delle persone che le fanno proprie, in particolare la credenza che gli eventi futuri siano influenzati da particolari comportamenti senza che vi sia una relazione causa-effetto.
La scaramanzia, di conseguenza,  può essere letta come una forma di superstizione la quale si manifesta attraverso frasi o gesti per attirare la buona sorte o allontanare gli eventi negativi. Soltanto in Italia, su cento persone più della metà ammette di far ricorso a gesti scaramantici in occasione di eventi di vita il cui esito è incerto; tuttavia bisogna considerare che si tratta di un fenomeno tutt’altro che ristretto alla nostra cultura, ma antico e radicato in tutte le culture del mondo, nonostante la condanna implicita dei tempi moderni.
Uno degli ambiti del quotidiano in cui si esprime maggiormente la tendenza a far ricorso a azioni scaramantiche è quello sportivo. Qui competizione, sfida e confronto in assenza di certezza, innalzano bruscamente i livelli di ansia legati alla prestazione e permettono che le reali capacità fisiche  e tecniche degli atleti vengano messe in secondo piano, sembra infatti che d’un tratto queste non bastino più per arrivare al traguardo.
Si assiste così alla creazione di veri e propri rituali innescati dal valore funzionale che lo sportivo dà ad un oggetto, a una frase, a un gesto presente durante una o più gare vincenti, inoltre, la casuale ripetizione nel tempo di una vittoria o di una buona prestazione associata al rito scaramantico convince l’atleta che le due cose siano imprescindibili. 
Molti campioni, all’interno di tutti gli ambiti sportivi esistenti, praticano dei rituali, insoliti, personalizzati, spesso unici. Dal calcio alla Formula 1, dal tennis alla Moto GP dove ad esempio uno dei gesti scaramantici più comuni tra tutti i piloti consiste nel non poggiare mai il casco per terra, nemmeno all’interno del box, per evitare che la stessa situazione possa verificarsi con una caduta. Loris Capirossi ha sempre preferito salire in sella dal lato destro della moto mentre “il Dottore” (Valentino Rossi) è solito compiere alcuni gesti metodici già all’interno del suo box prima di scendere in pista, toccandosi in sequenza le spalle, le mani e le gambe per poi dedicarsi all’attrezzatura che servirà a proteggerlo durante la corsa e, prima di entrare definitivamente in pista, si accuccia sempre alla destra della moto, in religioso silenzio quasi a raccomandarsi con lei.
Niki Lauda inseriva una monetina nei guanti, Felipe Massa indossa lo stesso paio di mutande per le qualifiche del sabato e per la gara della domenica dichiarando: "non è la superstizione a farmi vincere le corse, ma contribuisce a farmi sentire meglio".
Nel mondo del calcio può essere ricordato Pelè che ebbe un calo nella prestazione dopo aver regalato la sua maglia a un tifoso, difficoltà che lo portò a chiederne pubblicamente la restituzione; Maradona, che dopo la prima partita vinta ai Mondiali del 2010, pretese di ripetere un ricco e dettagliato rito propiziatorio andando a bordo campo con tutta la squadra per salutare i tifosi, facendosi fotografare con un membro dello staff tecnico argentino, telefonando poi alle figlie e, rientrato negli spogliatoi, facendosi portare una copia del giornale di 24 anni prima, che celebrava il secondo titolo mondiale vinto dalla sua Argentina. Solo successivamente scendeva in campo. Ma molti altri sono i personaggi di questo mondo che sono ricorsi alla questi mezzi, come non menzionare quindi il cappotto di Renzo Ulivieri, il rosario di Carlo Ancelotti quando sedeva sulla panchina del Milan,l'acqua santa di Giovanni Trapattonidurante i Mondiali di Corea ed i 26 kg di sale sparsi sul terreno di gioco di Pisa dal presidente Romeo Anconetani.
Questi rappresentativi esempi sono un mix di sacro e profano e rimarcano  l’importanza che assume il rito per gli sportivi, ma anche per i loro tifosi, i loro fan e i loro sostenitori i quali, che sia da bordo campo, dagli spalti o da davanti al televisore di casa, mantengono a loro volta i propri rituali esattamente con lo stesso scopo dei propri idoli sportivi. Una ricerca commissionata da Logitech ha dimostrato come in un campione di tifosi europei ad esempio il 65%dei maschi intervistati dichiara di sedersi sempre nello stesso punto del divano per evitare di portare sfortuna alla propria squadra, il 15% canta l'inno nazionale all'inizio di ogni partita mentre un uomo su dieci, ossia il 7%, indossa un capo di abbigliamento considerato un vero e proprio portafortuna.
Atleti e sostenitori superstiziosi condividono attraverso i rituali l’illusione di avere un controllo che apparentemente credono di non avere sull’esito della gara. Il vantaggio per l’atleta sta nel fatto che l’ansia viene placata, l’insicurezza sedata e l’individuo può dedicarsi alla concentrazione  e convogliare maggiore attenzione alla performance.
Il meccanismo di base che muove queste superstizioni non è il pensiero magico, quanto invece la credenza nella profezia auto avverante.  Secondo questa profezia, in assenza dell’oggetto o del rituale scelto e personalizzato  non si arriva alla vittoria o al raggiungimento di un obiettivo e tale pensiero influenza positivamente la prestazione tanto nello sportivo, quanto tutte le persone che affrontano le quotidiane prove di vita.
Basti pensare agli studenti universitari che, nella maggior parte dei casi, hanno un proprio rituale o un oggetto scaramantico da portare con sé in prossimità degli esami; più conosciuta è la “necessità” di cambiare strada qualora un gatto nero incroci il proprio cammino; è sconsigliabile passare sotto una scala aperta ed è fondamentale fare attenzione a non rompere gli specchi o ne patiranno ben sette anni della propria vita e di quella delle persone presenti in quel momento nella stanza.
L’andamento di una giornata è di per sé un evento stressante soprattutto se al suo interno vi è una prova da sostenere. L’impotenza, che deriva dall’esito sconosciuto di questo andamento, unita all’ansia legata dell’importanza che si restituisce all’evento atteso, crea la necessità di attribuire una parte di responsabilità a qualcuno o qualcosa al di fuori di noi. Ecco quindi che il portafortuna o il gesto scaramantico acquista importanza o addirittura diventa necessario.  Qualora l’esito positivo sia reiterato nel tempo, il valore scaramantico aumenta. Tutto ciò, però, non ha nulla di paranormale.
Lo sportivo che ha espletato il suo rituale o che porta addosso il suo oggetto portafortuna affronta con maggiore sicurezza la sua prova ed ha la possibilità di sentirsi sollevato da una parte del carico di responsabilità, il che gli permette di concentrarsi maggiormente su di sé e di conseguenza di migliorare la sua performance. È una questione di atteggiamento, quindi, con cui ci si appresta a fare qualcosa o vivere un momento, esattamente come l’evitare il gatto nero per strada dà una garanzia illusoria che tutto andrà bene per il resto della giornata, spingerà ad affrontare tutto in maniera più positiva e permetterà che la profezia auto avverante si adempia.
Non tutte le persone vivono di superstizioni, come è vero che chi invece conta su queste si muove su un continuum che va da un’influenza normale sulla vita quotidiana, ad un tratto patologico estremo che può sfociare in un Disturbo Ossessivo Compulsivo.
La scaramanzia, dunque,  ha dentro se stessa il concetto recondito che il controllo degli eventi della vita è sempre nelle nostre mani e si basa su ottimismo, sicurezza e convinzione nelle proprie capacità.

 Dott.ssa Ivana Siena

domenica 2 febbraio 2014

LEGGERE I SENTIMENTI: LA VULNERABILITA'

VULNERABILITÀ

“Quando eravamo bambini, pensavamo che una volta cresciuti non saremmo più stati vulnerabili. Ma crescere vuol dire accettare la vulnerabilità. Essere vivi significa essere vulnerabili”
Madeleine L'Engle, Walking on Water, 1980

La vulnerabilità è un sentimento a bassa intensità appartenente alla paura da cui molto spesso cerchiamo di fuggire. É la culla del nostro bambino interiore ferito e impaurito, ma è bene ricordarsi che ciò che è vulnerabile può essere ferito, ma non infranto.
Il termine vulnerabile deriva dalla parola latina “Vulnus” che letteralmente significa: ferita o lesione e vulnerabile è tutto ciò che è esposto alla possibilità di essere ferito, violato, leso, colpito, percosso, offeso, tagliato, danneggiato fisicamente, psicologicamente e/o emotivamente.
Detto ciò è logico pensare di associare la parola vulnerabilità a qualcosa di negativo. Tuttavia l’essere vulnerabili ha anche diversi aspetti positivi. Come recita un vecchio detto popolare “non ci rendiamo conto di ciò che abbiamo fino a quando lo perdiamo”, la vulnerabilità verrebbe ad essere una sensazione che ci permette di apprezzare il “qui ed ora”, che è realmente tutto ciò che possediamo. Essere consapevoli di essere vulnerabili è qualcosa che ci aiuta a valorizzare molto di più il nostro presente e ci permette di vivere pienamente ogni istante. Se accettiamo di essere persone vulnerabili potremmo imparare che “qui ed ora” è tutto ciò che realmente ci serve per essere felici.
Nello stesso modo, la vulnerabilità, più che uno stato d’animo da nascondere di fronte ad una società, la quale ci ha impresso l’idea che dobbiamo essere forti e non mostrare le nostre debolezze, potrebbe trasformarsi in una sensazione che può esserci d’aiuto per connetterci agli altri.
Essere vulnerabili, dunque, è segno di coraggio e compassione. Significa saper guardare alla nostra imperfezione con sorriso e accettazione. Se tutti noi facessimo un passo per abbattere il muro che, con forza, abbiamo costruito intorno a noi per paura che qualcuno vedesse la nostra fragilità, potremmo vivere serenamente la realtà: siamo tutti vulnerabili.



 Dott.ssa Teresa Giuzio
Centro di Psicoterapia Familiare

sabato 1 febbraio 2014

VIOLENZA DOMESTICA

BAMBINI: SPETTATORI SILENZIOSI


Grembiuli colorati, bambini emozionati e strepitanti davanti alle porte di una scuola sfoggiano le loro cartelle nuove. Bambini al parco giocano a nascondino, si rincorrono, gridano, le loro risate riecheggiano nell'aria. Bambini che amano il pallone e le macchine, bambine che pettinano le loro bambole e giocano a fare le principesse. Bambini che ridono, bambini ingenui, bambini che nella loro semplicità sanno fare emozionare, bambini che soffrono ma che, come piccoli soldati, celano dietro a grembiulini stirati o giochi colorati il proprio dolore.
Spettatori silenziosi di violenze domestiche. Non importa a quale forma di violenza assistano, quella fisica non è più minacciosa di quella verbale ma, piuttosto, la violenza è tanto più cruenta, terrificante, quanto più rappresenta una minaccia per chi la subisce. Alzare eccessivamente il tono della voce o minacciare, soprattutto se attraverso l'uso di oggetti, può assumere per il bambino lo stesso significato di una scena fisica di violenza. Molto conta anche la reazione della vittima, questa rappresenta l’indicatore della pericolosità della situazione e l’attribuzione di significato.
Quali sono le conseguenze a lungo termine sulla personalità del bambino? Violenza può generare altra violenza?
Come tutti ben sanno i bambini apprendono per imitazione e questo modello di comportamento sarà sicuramente appreso dal bambino il quale, impara che per risolvere un problema è necessario un comportamento violento perché questo è l’unico metodo di “risoluzione” di conflitti che conosce.  In casa i bambini terrorizzati sono molto taciturni, cercano come possono di evitare qualsiasi comportamento che possa far arrabbiare i genitori o possa favorire una lite, sono pietrificati dal terrore della messa in atto di violenza ed evitano di piagnucolare o di mostrare il proprio dissenso.
Il clima familiare in questi contesti è intriso di terrore, minacce, violenza, insulti, svalutazioni, rimproveri, umiliazioni, critiche e il bambino si sente ferito, triste e spesso si fa portavoce di un grande senso di colpa. Ritiene di essere il colpevole delle liti genitoriali, la sua sfera psichica e quella emotiva non sono ancora adeguatamente sviluppate soprattutto per quanto concerne la razionalità, non riesce a dare spiegazioni al comportamento genitoriale e l’unico nesso logico che motivi la violenza del genitore nei confronti dell’altro è pensare che sia stato lui a causarlo, di aver fatto o detto qualcosa che ha scatenato la lite e la furibonda violenza.
Questo è un atteggiamento che accomuna anche i bambini in sede di separazione, divorzio o in caso di lutto: l’infante pensa che la morte o l’abbandono da parte dei uno dei genitori possano essere avvenuti a causa sua.
Quando i bambini sono spaventati, il mondo può sembrare enorme, minaccioso, pericoloso, un posto dove non si sentono sicuri e in cui non possono fidarsi degli altri. Assistere alla violenza di un genitore sull'altro crea confusione nel bambino, in quanto, sono proprio le figure che dovrebbero prendersi cura di lui, i propri i genitori da cui si aspetta protezione, accadimento e fiducia, a “rompere” questo legame. Si lede in questo modo il  legame di attaccamento tra bambino e genitori, relazione all'interno della quale il piccolo può  sentirsi protetto e sicuro, relazione fondamentale per lo sviluppo corretto del bambino.
Ogni bambino necessita di punti cardini, essenziali per il proprio sviluppo che, in questo caso, vengono a sgretolarsi: vede le sue figure di riferimento da un lato impotenti, disperate, terrorizzate (spesso la madre) e dall'altro paurose, minacciose e pericolose (spesso il padre).  Si crea così  un modello relazionale distorto e patologico, a causa del forte e costante stress e dell’equilibrio psico-fisico materno precario che,  influenzerà i rapporti affettivi che l'adolescente, e l'adulto poi, instaureranno nel corso della vita. Il bambino maturerà portando con sé degli stereotipi di  genere che prevedono, la svalutazione della figura femminile e, un’alterata percezione dei ruoli e dell’identità di genere. Attribuirà infatti all’uomo connotati di forza, violenza, potere e alla donna debolezza, inferiorità e sottomissione.
Spesso al bambino taciturno tra le mura domestiche si contrappone un bambino violento e aggressivo all’esterno, con gli amici o con i compagni di scuola. Lo stress accumulato tra le mura domestiche, la carica emotiva e la tensione crescenti trovano spazio all’esterno. Dopo aver vissuto tanta violenza assumono atteggiamento di difesa di pseudo potenza, appaiono “duri” e si comportano come tali, sono spesso bulli, si prendono gioco di altri e assumono un comportamento violento mettendo in atto un’inversione di ruoli, lui il carnefice non più la vittima. In altri casi invece il bambino mantiene il ruolo di vittima anche all’esterno, può avere atteggiamenti compiacenti e di sottomissione, bassa autostima,  distacco emotivo, disturbi
d'ansia, somatizzazioni che, faranno da filo conduttore in tutta la vita e potrebbero dare forma a  forti vissuti depressivi, difficoltà genitoriali, relazionali e possibili disturbi della personalità.



Figlio chi t’insegnerà le stelle
se da questa nave non potrai vederle…

-Roberto Vecchioni, Figlio-




 Dott.ssa Desirè Roberto
Centro di Psicoterapia Familiare